A fare la parte del leone, nella mostra appena inaugurata nella Galleria d’Arte Moderna di Roma, è sicuramente il maceratese Luigi Bonichi, noto come Gino, che, per sua stessa volontà, si faceva chiamare Scipione, per sottolineare la propria ispirazione romana. Che, nonostante i suoi pochi anni di vita (appena 29, 1904-1933), la malattia (tubercolosi) contratta in giovanissima età (a 15 anni) e la scarsa produzione (circa 80 oli e più di 300 disegni), senza dubbio ha lasciato un profondo segno nell’evoluzione della storia dell’arte non solo romana ma, soprattutto, italiana. Infatti, proprio a lui -insieme a Mario Mafai e Antonietta Raphaël – si deve l’avvio di quella che Roberto Longhi chiamò Scuola di via Cavour, meglio conosciuta come Scuola Romana.
Più che Scuola, in realtà, era un gruppo di artisti, uniti da una corrispondenza nella ricerca di un’arte che superasse il classicismo accademico e il formalismo del Novecento, nato a Milano e fortemente caldeggiato da Margherita Sarfatti (che non a caso ebbe una lunga e poi burrascosa relazione con Benito Mussolini che, all’indomani della promulgazione delle Leggi Razziali, non la ostacolò nella fuga). E proprio il clima artistico che si creò in Italia tra i due conflitti mondiali, non solo nella Capitale, ma anche in quelle città che furono i principali poli di questa ricerca, vale a dire Torino e Milano, è quanto la mostra L’estetica della deformazione. Protagonisti dell’espressionismo italiano (aperta fino al 2 febbraio 2025) vuole ricreare nelle sale dei tre piani della Galleria.
Le poco meno di 130 opere sono così suddivise in tre distinte sezioni, ovvero: Un’arte eccentrica e anarcoide; Roma, via Cavour e oltre; Torino, I Sei e altre ricerche espressioniste e Milano, una “Corrente di Vita Giovane”. In un bello e armonioso allestimento, che risente solo un pochino di un’illuminazione non proprio centrata, si ripercorrono, dunque, quegli anni, ammirando i lavori dei protagonisti che guardavano al grande passato artistico non solo italiano (spaziando da El Greco a Masaccio, al Barocco romano), e a quanto la pittura contemporanea europea realizzava nello stesso periodo (Matisse, Cézanne, Derain, Soutin, Chagall), senza ignorare la metafisica dechirichiana. Uno sguardo e una consonanza artistica che facilmente si rintracciano anche nella similitudine dei soggetti e dei temi affrontati nelle rispettive opere.
I curatori Arianna Angelelli, Daniele Fenaroli e Daniela Vasta, completando quanto presente nelle collezioni della Galleria d’Arte Moderna (37) e Musei di Villa Torlonia (8), con le preziose opere della collezione privata di Giuseppe Iannaccone (ben 79), nonché l’irrinunciabile Ritratto di Alberto Moravia realizzato da Carlo Levi nel 1930 della Collezione Moravia, hanno ricostruito, in modo sufficientemente approfondito, il panorama di quegli anni. Così, per la cosiddetta Scuola Romana, insieme ai 19 lavori di Scipione, oltre a quelli di Mafai e Raphaël, sono esposti Marino Mazzacurati, Mirko Basaldella, Filippo De Pisis, Fausto Pirandello, Afro, Roberto Melli, Alberto Ziveri. Nella sezione dedicata a Torino, Gigi Chessa, Carlo Levi, Francesco Menzio, Nicola Galante, Luigi Spazzapan e Emilio Sobrero. Infine, per la sezione Milano, Fiorenzo Tomea, Ennio Morlotti, Lucio Fontana, Renato Gottuso, Arnaldo Badodi, Italo Valenti, Emilio Vedova, Domenico Cantatore, Aldo Salvadori, Arturo Tosi, Renato Birolli, Aligi Sassu, Ernesto Treccani, Bruno Cassinari, Giacomo Manzù, Nino Franchina e Filippo Tallone.
Così riuniti, oltre a ricreare il clima di quegli anni, accordano la possibilità di rintracciare le principali peculiarità della loro grammatica artistica. Primi fra tutti, sono proprio l’uso del colore nonché della deformazione dei contorni. Pratica, quest’ultima, che, periodicamente, diventa predominante, allorquando sia avvertito, come fondamentale, il bisogno di esprimere una propria soggettiva libertà, soprattutto emotiva, che si oppone ai rigidi confini razionali e accademici.
L’altra, è quella strettamente legata alla tecnica, alla costruzione materica dei lavori. Impossibile non restare affascinati da La lettera (1929), il possente olio su cartone di Fausto Pirandello; o dal sentimento travolgente di Furore (1944) costruito con tessere musive veneziane da Mirko Basaldella. Oppure alle dimensioni intime, come ne La lettura (1942) di Roberto Melli o la Natura morta (1934) di morandiana memoria, di Aldo Salvadori. Infine, è interessante rintracciare anche dove gli artisti posavano il loro sguardo. Ecco, allora, la Strada con casa rossa (1928), Tramonto sul Lungotevere (1929) o Donne che si spogliano (1934) di Mafai; Paesaggio a Collepardo (1929) o Il Cardinal Decano (1930) al secolo il Cardinal Vannutelli, di Scipione, come incarnazione della fede ma, soprattutto, della forza spirituale della Chiesa.
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