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Eterea e potente, la reggia allo specchio di Helidon Xhixha
Mostre
A partire dai territori del mito greco, l’enigma dello specchio, alla cui antica concezione Helidon Xhixha si rifà – è l’enigma dell’altro e dello stesso, dell’identità e della differenza, della verità e dell’illusione.
Dalla Roccia del Mediterraneo sullo Scalone d’Onore, sulla cui sommità si riflette Aurora, giovane donna portatrice di una fiaccola che allontanando la notte apre le porte del giorno e annuncia il mattino, prende le mosse l’etera e potente La reggia allo specchio, la mostra promossa dal Comune di Milano, prodotta da Palazzo Reale con lo studio Helidon Xhixha e curata da Michele Bonuomo. «Pesantezza e voluminosità – connotati peculiari di un qualsiasi manufatto plastico – nelle sculture di Xhixha mutano di stato come in un processo alchemico, diventando leggeri e mutevoli nello sguardo dell’osservatore», spiega il curatore.
Nella storia del pensiero lo specchio non è una metafora come tutte le altre. Instrumentum philosophiae fin dalle più antiche trattazioni, lo specchio, nella materialità dell’acciaio inox, diventa nelle mani di Helidon Xhixha l’instumentum artis con cui include nel suo paesaggio astratto ed enigmatico l’osservatore stesso: colui che guarda può, qui e ora, guardarsi. Le installazioni monumentali e scultoree, dalla forma geometrica essenziale – un cubo, un cilindro, un parallelepipedo, una sfera e una piramide – riproducono una porzione di reale trasformandolo nella sua immagine rovesciata, dalla profondità ingannevole e dalla consistenza effimera, come in uno spettacolo di magia.
Dallo Scalone si entra nell’Anticamera di Sinistra, elegantemente decorata di festoni e trofei a chiaroscuro, nello stile della scuola di Giocondo Albertolli. Xhixha colloca la cilindrica Vortice di Luce tra il Ritratto di lady Venetia Digby come allegoria della Prudenza del maestro fiammingo Antoon Van Dyck e il Ritratto dell’Imperatrice Maria Teresa d’Austria di autore anonimo, restituendoci immagini multiple e poliforme. La natura del percorso, che prosegue nelle successive tre Sale degli Arazzi settecenteschi, è evidentemente polisemica: fa riflettere, infatti, sull’essenza delle cose e delle immagini, sulla loro realtà e sulla loro percezione.
Nella prima Sala degli Arazzi Reflexes intercetta e amplifica gli episodi La fuga di Medea (1769), Giasone doma i tori (1770) e Creusa è consumata dal fuoco del fatale abito che Medea le ha donato (1770). Il mito di Giasone prosegue anche nella seconda sala, dove la sferica e femminile Venere di Xhixha, si impone al centro tra i due arazzi alle pareti realizzati da Claude Audran – Giasone giura fedeltà a Medea che gli promette aiuto con la sua arte (1766) e Le nozze di Giasone e Creusa (1773) – dodici pitture a tempera opera di Giuseppe Levati e cinque sovrapporta, dipinti a olio su tela da Angelo Monticelli, raffiguranti dei putti in gioco.
La monumentale Piramide di luce – figura geometrica della percezione e simbolo della scalata al cielo verso il Sole – chiude il percorso nella terza Sala, dove il ciclo degli arazzi dedicati al mito di Giasone e Medea si completa con Giasone conquista il vello d’oro (1767), e I guerrieri nati dal dente del serpente volgono le armi contro se stessi (1764). Agli arazzi si aggiungono undici pannelli ornamentali attribuiti ad Andrea Appiani decorati a festoni e candelabri, sei sovrapporta (che riprendono il tema mitico) attribuiti al pittore Giuliano Traballesi e una specchiera che, significativamente, amplifica in potenza l’enigma dell’altro e dello stesso, l’enigma dell’identità e della differenza, della verità e dell’illusione.
Helidon Xhixha, sensibile conoscitore della tradizione scultorea italiana, non scolpisce l’acciaio ma usa l’acciaio per scolpire la luce, che assorbe e riverbera nelle sue distintive stropicciature. Dentro a quel luogo che lui ha raccontato come «un sogno fin da quando lo vedevo da ragazzo» non racconta solo la storia, simmetrica e speculare di chi alla scuola del riflesso, diviene conoscitore di se stesso, ma modella nel tempo presente e in continuo divenire – con l’amorevolezza che appartiene a un atto di preghiera – l’eterna figura dell’uomo che si guarda, sintesi della ricorrente ambizione di un sapere assoluto e totalizzante, fuso senza riserve con la realtà che lo circonda.