Nei giorni 26, 27, 28 novembre, palazzo Capizucchi, nel cuore di Roma, ospita la collettiva collegata al progetto “Per una ricerca sulla specificità dell’arte [eventualmente] femminile”, che tra il 2016 e il 2018 ha visto coinvolte oltre sessanta artiste e quindici studiose in una serie d’incontri, convegni e giornate di studio. Ci sono solo tre giorni per visitare “Eventualmente Femminile” a palazzo Capizucchi, in piazza Campitelli 3 a Roma. Per saperne di più abbiamo intervistato le due curatrici, l’artista Veronica Montanino e la storica dell’arte Anna Maria Panzera.
Come nasce l’idea di “Eventualmente Femminile”?
«Il progetto originario nasce nel 2016 sotto forma di ricerca sulla specificità eventuale dell’arte femminile con convegni, incontri, giornate di studio, che si sono poi sedimentate in un libro nel 2019, intitolato FEMM[E] Arte [eventualmente] femminile, edito da Bordeaux. All’epoca volevamo guardare al panorama romano delle artiste donne (ne abbiamo coinvolte circa sessanta), che risultavano particolarmente attive e partecipanti all’esperienza del Maam_Museo dell’Altro e dell’Altrove di Metropoliz, in un momento in cui era un luogo molto vitale in città. C’era indubbiamente una componente sociologica e politica nell’idea stessa di mappatura e nell’alta partecipazione, ma al tempo stesso non abbiamo mai inteso rinunciare a un approccio scientifico. Aspiravamo infatti a ragionare contestualmente, in un ambito specificamente storico-artistico, sul concetto di “femminile” da un punto di vista teorico, confrontandoci con diverse studiose. Ed è proprio questo approfondimento teorico che siamo interessate a portare avanti nella nuova fase del progetto cui stiamo dando seguito e che comprenderà attività espositive, essendo convinte della necessità di tenere insieme le immagini e la pratica dell’immaginazione col pensiero, che altrimenti rischia di perdere senso e divenire astratto. Allora la parola “eventualmente” indicava un punto di domanda e un approccio esplorativo; oggi è diventata per noi un primo punto di arrivo di quella ricerca, e sta a significare “l’eventualità femminile dell’arte”, ovvero un modo diverso di intenderla».
Ha senso parlare di arte femminile o femminista?
«Ha senso parlare di arte femminista, che è definita e che tutti conosciamo dagli anni settanta in poi. Non ha senso parlare di arte femminile, ma di femminile dell’arte: bisogna invertire i termini. Non esiste una specificità femminile nell’arte delle donne, benché sia riscontrabile che le circostanze biografiche inevitabilmente, incidendo sull’opera, trapelino in molti casi dall’opera stessa. Tuttavia esiste, dal nostro punto di vista, uno specifico femminile dell’arte tutta. Ovviamente il termine va problematizzato e diventa interessante quando si usi per intendere una modalità del pensiero, un altro punto di vista, una fertilità della mente che produce un fatto tangibile – l’opera – come risultato da essa generato. Usiamo “femminile” per rendere intellegibile un concetto, un’idea di trasformabilità interna all’essere umano ed esteriorizzata nel processo artistico, non per indicare la donna, che è molto altro rispetto a questo e che implica tutta una serie di questioni evidentemente non risolte a livello culturale, sociale e politico».
Si parla spesso di un “linguaggio femminile” dell’arte: quali sono i caratteri peculiari di un linguaggio femminile rispetto a un linguaggio maschile?
«Risulta un po’ difficile, per i motivi di cui sopra, parlare di maschile e femminile in termini di linguaggi artistici. Meglio parlare di categorie culturali; in questo caso, quella maschile risulta abbastanza ben definita dagli ultimi 2.500 anni di pensiero occidentale. Anche se il rischio di eccessive semplificazioni è sempre dietro l’angolo, possiamo affermare che il maschile (che anche in questo caso, lo ribadiamo, non coincide col genere) è stato foriero di gerarchie, come quella che stabilisce la supremazia del logos sull’immagine. Ha definito se stesso come centralità unica, messa in crisi dalle recenti ricerche scientifiche e dagli ultimi eventi, dando luogo a un sillogismo dalle conclusioni palesemente catastrofiche. Il femminile esclude la centralità e l’unicità, è la dimensione del molteplice e implica relazione e cambiamento di stato: la capacità generativa e la creatività è questo. È la sensibilità, la ricettività e la reattività, che comportano una dimensione fluida. D’altra parte pensiamo a Duchamp e al suo modo di impersonare il femminile in Rose Sélavy, il suo alter ego. Potrebbe essere la chiave di lettura delle infinite rappresentazioni di donne nell’arte per opera degli artisti? Si dice sempre che l’artista rappresenta se stesso, perché non in questo caso?»
La complessità del termine “femminile” nella vostra ricerca non viene chiuso in una categorizzazione che limita il discorso e il linguaggio a una questione di genere. In quale modo intendete proporlo?
«Stabilita la trasversalità del femminile, che attraversa il fare artistico a prescindere dai generi, è importante che esso sia tenuto presente anche come opportunità di cambiare lo sguardo. L’arte, infatti, non vive solo nelle mani dell’artista, ma anche negli occhi di chi la vede ed esperisce. Non si tratta solamente della solita affermazione riguardante il completamento dell’opera da parte degli spettatori. In questo caso si richiede un mutamento di prospettiva culturale, perché quello che è veramente difficile togliersi dalla testa è l’impostazione patriarcale del pensiero, che vede l’arte come potere e/o come merce».
Quali sono gli artisti invitati e come si articola il percorso espositivo?
«La mostra si apre con alcune opere inedite di Maurizio Savini: un’opera viva, Park, e alcuni disegni prodotti durante il lockdown. Nella stanza successiva abbiamo un’installazione in movimento di Bruna Esposito, Non c’è pace tra gli ulivi, esposta un’unica volta al Madre di Napoli nella mostra “Trasparenze” (2010). Quindi, seguono due messaggi video di Claire Fontaine, indirizzati allo spettatore sotto forma di self-help, ironici e veri allo stesso tempo. Di fronte, l’opera di Piotr Hanzelewicz, Alveare. Segue una sala dedicata a Marianna Masciolini e all’esordiente Cristina Russo: qui le due opere dialogano con l’allestimento di Sauro Radicchi, che prende la forma di un intervento ambientale, a conferma del fatto che anche lo spazio nella mostra si fa elemento sensibile, come la materia che dà il titolo all’evento. Infine, l’ultimo ambiente, buio, è di grande atmosfera: ospita le opere luminose di EPVS e Bankeri. I lavori sono molto eterogenei per tecniche, linguaggi e materiali ma dialogano intensamente tra di loro intorno al tema centrale».
Con quale criterio avete selezionato gli artisti?
«Rispetto al progetto originario, la partecipazione di artisti e artiste in numero congruo è stato decisivo per condurre il concept della mostra. Ci è piaciuto mettere insieme generazioni differenti e ospitare un esordiente. Più che una selezione si è trattato di un incontro con coloro che hanno avuto il coraggio di riconoscersi nel titolo della mostra, che hanno avuto fiducia nei nostri confronti e che non si sono spaventati nel porsi sotto l’etichetta del “femminile” (soprattutto gli artisti maschi, evidentemente)».
La mostra dura solo tre giorni. Come mai questa scelta?
«Innanzitutto riprende il ritmo di eventi già susseguitisi durante il progetto originario. Ora, a maggior ragione, ci interessava che lo spazio rimanesse uno spazio vivo, frequentato, in cui il tempo si contraesse senza dilatare le visite degli spettatori e di conseguenza l’attenzione. Un’occasione d’incontro intensificato. La mostra stessa doveva essere un processo organico materiale, come una fioritura breve e intensa».
Questo è il primo di una serie di episodi. In quale modo e in quale direzione intendete sviluppare questo progetto?
«Trattandosi di un progetto indipendente, la sua realizzazione è conseguente anche alle occasioni che si presenteranno. Abbiamo le idee chiare sui temi da sviluppare e la voglia di allargare e condividere il progetto con altri artisti, ma si devono anche creare le condizioni ideali per manifestare al meglio la nostra proposta».
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