Maria Loboda, con un sapiente gioco tra realtà e rappresentazione, trasforma lo spazio milanese della galleria Vistamare in un giardino contorto, pieno di ambiguità, popolato da sculture e pitture murali.
Il falso, inteso nell’accezione positiva di finta finitura ed elegante imitazione e tradotto in francese – “Faux” – per intitolare la prima mostra personale in Italia di Loboda, è esplorato dall’artista secondo la sua personale attitudine a un’indagine estetica dei codici culturali e grammatica dei materiali che assume la forma di un’archeologia del contemporaneo.
L’interesse per il “Faux” ha riportato alla mia mente il romanzo di Georges Perec “Un cabinet d’amateur. Histoire d’un tableau”: il principio della copia e del falso sono punti cardine del breve racconto. Falso è, ipso facto, il racconto costruito da Perec per il solo piacere e l’esclusivo brivido della finzione. Condividendo questa sensazione, e affidandoci alla comune e inaspettata affinità perechiana – «Mi piace molto Perec, proprio ora sto leggendo “La vie mode d’emploi” e mi sta piacendo moltissimo. Devo ammettere che non ho mai letto Un cabinet, ma lo farò sicuramente» – ho chiesto a Maria Loboda come fosse nato questo suo interesse per l’imitazione e in che modo fosse diventato strumento per la creazione di nuove immagini, inesistenti nel campo reale.
«È bello che tu lo definisca come uno strumento di creazione – perché per me lo è senz’altro, senza questa possibilità di “fare finta di uscire” molte delle mie opere non sarebbero mai state fisicamente possibili. Tuttavia, per il bene del concetto della mostra, è importante non tradurre faux direttamente in fake. Ho scelto l’espressione francese, perché per me indica una lavorazione artigianale avanzata. In realtà faux finish – letteralmente finta finitura – è un termine che fin dall’antichità designa una tecnica e che, al pari della marmorizzazione, dell’intonaco veneziano e del trompe l’oeil, ha una lunga tradizione ed è un’abilità artigianale molto apprezzata e definisce la capacità umana di imitare la natura. Ho cercato di costruire il concetto della mostra da questa prospettiva, diciamo pure con un approccio anti-establishment per portare qualcosa di spazialmente o finanziariamente irraggiungibile nelle case e nei giardini. Ci si può avvicinare e si può giocare, senza paura, con i beni destinati all’alta borghesia: li ho ricreati con materiali meno costosi, mantenendoli frivoli e divertenti. È un gesto punk, ma non solo. È un gioco di imitazione, di mimetismo e di fantasia».
Un giardino contorto e pieno di ambiguità, legno pietrificato e orecchini come reperti, e infine delle perle, che Maria Loboda chiede di ignorare, che sembrano alludere a una strana scena del crimine. Sono tutti piccoli slittamenti di rappresentazione e di senso che costituiscono il motore della narrazione. Le chiedo come è nata e come, se crede, evolverà?
«Rimaniamo sul tema letterario, mi piace. In un certo senso considero tutte le mie mostre come capitoli di un libro, forse non in continuità logica ma come un flusso di poesia. Le mie idee sono tutte intrecciate, una si evolve dall’altra, i titoli definiscono i capitoli e le opere ne derivano. Poiché preferisco non avere uno studio, ma lavorare viaggiando ed esplorando, la mia ricerca è di solito solo testuale. Viaggio con i miei taccuini e la mia macchina fotografica e raccolgo il maggior numero possibile di soggetti per potenziali opere d’arte future. E provengono da ogni campo immaginabile. “Faux” è nato da quando sono rimasta affascinata dal termine Imitation Pearl dopo alcune ricerche sugli orecchini Dandy Pearl del XVI secolo. Le mie precedenti ricerche sulle varie tecniche di finitura finta mi sono tornate in mente e tutto si è intrecciato. E voglio che sia così: questa mostra in particolare, questo capitolo del libro è ambiguo, un giardino finto, che dà molte informazioni e contemporaneamente nessuna. Se potessimo considerarlo come un pezzo di finzione letteraria, una storia falsa in un mondo reale, ma che lavora con materiali reali. Un piccolo gioco di parole Perec-iano, congelato nel tempo. Forse questo giardino si aprirà anche a me per entrare in esso e approfondire questi temi, per guardare dietro le spalliere e affrontare le armi per risolvere il crimine. O forse no. Mi è sempre piaciuta anche questa piccola citazione di Raymond Chandler, che ha una grande influenza su di me, credo sia tratta da La semplice arte del delitto: “Il detective è sconfitto e il crimine è irrisolto”».
Si tende a definire un’opera reale perché è immediata. Ma se si comprende il legame tra realtà e rappresentazione, così come dialetticamente esiste, risulta con maggiore chiarezza che spesso ciò che si percepisce come immediato è in realtà un rapporto, sapientemente mediato, tra esperienza e medium. Per quanto un lavoro possa impegnare la realtà e la realtà possa essere intesa o immaginata oltre la rappresentazione, è altresì vero che molto dipende dall’utilizzo delle tecniche di rappresentazione.
«Non sono sicura – dice Loboda – che il faux riguardi la non esistenza, al contrario trovo che sia molto esistente, la sua energia creativa che piega le regole alle proprie esigenze – cosa che trovo molto liberatoria. Ma può anche assumere un andamento terrificante, visto che in questo momento ci troviamo di fronte a una finta intelligenza altamente sviluppata, alias IA, ma forse è proprio questa la natura umana nel suo nucleo. Un gioco di imitazione».
Che le convenzioni di rappresentazione implichino sempre nozioni specifiche di realtà – e viceversa, pone l’urgenza di non considerare realtà e rappresentazione come opposti reciprocamente escludenti bensì come elementi che co-determinano. Nella mostra di Maria Loboda ci si sente sospesi, tra realtà e immaginazione, come se fossimo fermi, nel punto immediatamente precedente a quello del non ritorno.
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