La mostra dedicata a Felice Carena, con più di 100 opere (dipinti e disegni articolati in cinque sezioni con ragguardevoli e singolari inediti), provenienti da collezioni pubbliche e private delle città in cui ha vissuto e lavorato (Torino, Roma, Firenze e Venezia), è ben curata e pregevolmente proposta in ordine tematico e cronologico da Luca Massimo Barbero, Virginia Baradel, Luigi Cavallo ed Elena Pontiggia. Questa grande esposizione, a 145 anni dalla nascita di Carena e a una quindicina dall’ultima antologica, celebra il pittore torinese tanto acclamato in vita. L‘interruzione di celebrità non significa che sia un minore sopravvalutato, ma semmai un grande misconosciuto anche per il suo coraggio di non essere mai allineato se non con sé stesso, comportamento sempre difficile da tenere, sostenere e comprendere nel passato e ancor di più oggi.
Di grande aiuto il catalogo (edito da Gallerie d’Italia|Skira) per conoscere in modo sempre più approfondito un uomo, un artista, una persona vissuta in un momento storico di cui forse non riesce a percepire appieno le problematiche così impegnato com’è a cercare e introiettare brandelli di calore umano nel suo dolente io.
Il suo iter esistenziale e artistico aiuta a scoprire alcuni aspetti di una vita connotata ab infantia da una palpabile vena melanconica che non lo abbandonerà mai come uno scuro demone pronto a inghiottire il gioioso piacere di esistere lasciandogli un doloroso vuoto attenuato dalla lente religiosa di una compassione dolente e sofferta. Sembra quasi che l’artista assuma su di sé il carico del dolore che lo circonda senza riuscire a liberare sé stesso e gli altri se non attraverso il pennello catartico: una carezza che a volte diviene compiacimento e poi viaggio verso la luce che da fisica si fa religiosa e divina.
Quarto di sei figli di Giuseppe (impiegato) e di Delfina (maestra elementare figlia di un notaio), una famiglia molto religiosa, Felice Mario Ippolito da bambino frequenta a lungo la casa dei nonni a Cumiana: nella sua Autobiografia ricorda “un’infanzia triste, grigia e monotona” che non ha certo attenuato il suo carattere schivo e melanconico. In difficoltà con gli studi classici, si trasferisce con parecchie perplessità all’Accademia Albertina che seguirà per i primi tre anni senza quell’amore che gli regala la consolatoria poesia e dove costruisce solide amicizie sempre più numerose che estenderà anche in ambienti letterari. Attore tragico, scenografo e truccatore più per amore sociale che teatrale, durante i corsi superiori dell’Accademia sceglie pittura (tra i suoi maestri Giacomo Grosso e Lorenzo Delleani) e questa volta si appassiona alla materia conseguendo successi.
Del 1899 è il suo esordio (legato all’ambito secessionista e simbolista) in una mostra presso la Società Promotrice delle Belle Arti di Torino con L’erbivendola e Vecchio-impressione: un incipit cui seguirà un’attività frenetica e la partecipazione a numerosissime esposizioni intervallate da esperienze all’estero (a Parigi è attratto dalle opere di Courbet) e da collaborazioni iniziate con “La Riviera Ligure” diretta dal poeta e filosofo Mario Novaro. Vinto nel 1906 con La rivolta un concorso per il Pensionato Artistico Nazionale di Roma, vi si trasferisce e ritrova vecchi amici oltre a stringere nuovi sodalizi tra cui uno sentimentale con la scrittrice Gina Ferrero (moglie del barone Augusto Ferrero, critico letterario e artistico della “Tribuna”) da cui avrà la figlia Marzia. Espone alla Biennale di Venezia del 1912 dove il pubblico e la critica imparano a conoscerlo. Fa parte della Commissione Ordinatrice della Iª Esposizione della Secessione Romana e ammira la pittura di Cézanne e Matisse. La prima Guerra Mondiale cui partecipa gli permette di conoscere meglio gli uomini. Ritornato dal fronte nella casetta di Anticoli Corrado che ha affittato, riprende a dipingere e si sposa con Maria Rita Chessa (sorella del pittore Luigi Chessa) dalla quale si separerà e da cui avrà nel 1920 Donatella, la seconda figlia.
Oltre a dipingere freneticamente e a partecipare a esposizioni, insieme allo scultore Attilio Selva apre una scuola d’arte frequentata tra gli altri da Fausto Pirandello, Emanuele Cavalli e Giuseppe Capogrossi. Nel 1922, partecipa alla XIII Biennale di Venezia anche con Quiete (elegante scena campestre con elementi naturalistici precisi e dettagliati come le primule) raccogliendo consensi. Più tardi, Sarfatti lo definirà “artista versatile, delicato e interessante”, altri invece lo criticano quando cambia stile. Dal 1924 è nominato “per chiara fama” insegnante di pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze dove resterà vent’anni. Lo ferma la salute, ma riprende sempre più convinto che l’arte deve nutrirsi di umanità. Nel 1933 è nominato Accademico d’Italia e presidente dell’Accademia di Belle Arti di Firenze cui farà acquisire prestigio internazionale. È oggetto di continue recensioni: in alcune sono splendidamente descritti i suoi caratteri fisiognomici e psicologici: “Viso di asceta e di poeta, volto di apostolo dalla voce sommessa” (Vergani): quasi un commensale dell’Ultima Cena. Sono di questi anni Estate (L’amaca), icona della mostra milanese, espressione vitale e briosa di una natura esuberante e Teatro popolare con lo spaccato di una galleria con spettatori in abito scuro il cui entusiasmo è tradotto in espressioni tra il meravigliato e lo scomposto, composta e soprappensiero l’unica donna, vestita di rosa intenso.
Man mano la sua pittura diverrà più spirituale e si esprimerà tramite ritratti, nature morte e composizioni sacre. Presiede concorsi e attraverso Dogali esprime una meditazione sul dolore della guerra e sulla morte, scambiata per una critica storica non in sintonia con il clima politico dell’epoca… il tempo passa e non cessa di produrre. Nel 1944 le bombe distruggono la sua casa (Villa Malafrasca) a San Domenico di Fiesole con libri, documenti e quadri suoi e della sua collezione con conseguenze nefaste per il suo umore. Raggiunge a Venezia la figlia Marzia che lo aiuta a cominciare una nuova vita ritrovando sé stesso e una vita sociale tra vecchi e nuovi amici: vi rimarrà fino alla fine dei suoi giorni. Riprende a dipingere intensamente avvicinandosi al mondo ecclesiastico e rimanendo al di fuori del dibattito tra arte astratta e figurativo certo che l’arte debba essere contraddistinta da valore morale, sensibilità e umanità. Per sottolineare la dimensione spirituale dell’arte a un convegno sostiene che è “la più sublime testimonianza di Dio”, concetto condiviso da Angelo Giuseppe Roncalli, da poco patriarca di Venezia.
Carena stringe amicizia con alcuni ecclesiastici di grande cultura e sensibilità e dal 1953 nasce con Roncalli una frequentazione che si tradurrà in un profondo sodalizio nutrito di alti valori spirituali, capacità di ascolto e appunto certezza che vita e arte abbiano affinità morali. Altro fedele sodale di questi anni Vittorio Cini con cui lo legano interessi comuni e che lo aiuta acquistando molti suoi quadri oggi in Fondazione. Carena a sua volta dona alla Fondazione 60 disegni. Verso il 1963, stringe amicizia con la pianista Wanda Leskovic (sorella del poeta futurista Michele) e, anche se la salute non va a gonfie vele, continua l’attività. Nel 1966 spira.
Una vita complessa: operosissima, sofferta, drammatica e segnata dal punto di vista stilistico da una navigazione attraverso vari porti (classicismo, romanticismo…) per concludere negli anni veneziani con la ricerca attraverso la luce del suo io. Una mostra, quella alle Gallerie d’Italia di Milano, da percorrere in modo lento soffermandosi di fronte a ogni opera per raccogliere soffi di vita e uscire con la certezza di non essere più soli.
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