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Femme Fatale, tra mito e stereotipo: la mostra alla Kunsthalle di Amburgo
Mostre
La femme fatale è un mito, una proiezione, una costruzione», così Markus Bertsch, curatore della mostra “FEMME FATALE Gaze – Power – Gender”, visitabile fino al 10 aprile alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo, definisce «L’immagine di uno specifico stereotipo femminile, fortemente codificato: una donna sensuale ed erotica, desiderabile la cui natura demoniaca viene rivelata quando gli uomini cadono sotto il suo incantesimo, spesso con un esito fatale». Un’immagine abbagliante a lungo dominata dallo sguardo maschile, diventa protagonista.
La costellazione di suggestioni e volti pervade la nostra mente nel pensare alla femme fatale, che si origina da figure bibliche ed epiche come Eva, Medea e Circe. Dominatrice, lussuriosa e perversa, ha nutrito la letteratura romantica e decadente generando personaggi come la Marchesa de Merteuil, trovando personificazione nelle prime “vamp”, termine danese che significa vampiro, del cinema francese come Theda Bara o Musidora, fino ad approdare nel cinema noir americano.
Sottotitolata “Gaze, Power, Gender”, la mostra si pone al centro della discussione contemporanea sul femminismo, in particolare per quanto riguarda la concezione moderna della donna e l’identità di genere. «Un concetto a dir poco problematico», spiega Markus Bertsch, quello della femme fatale, specchio della visione della donna e testimone dei cambiamenti sociali che viene raccontato attraverso 200 opere, le quali riuniscono latitudini, cronologie e pensieri anche siderali tra loro, da Rossetti a Nan Goldin.
Oltre a esplorare una serie di approcci artistici al tema, dall’inizio del XIX secolo a oggi, la mostra si propone di esaminare criticamente questa figura mitica nella sua genesi e trasformazione storica, trovando l’incipit nelle opere di Julius Hübner, Il pescatore e la Sirena, e nella Ninfa del Reno Lorelei, di Carl Joseph Begas. Il percorso espositivo procede dalle tele dei Preraffaelliti, attraverso il contrasto deliberatamente voluto tra donne potenti, passate alla storia per le terribili gesta e una messa in scena sensuale ed erotica, stabilendo un’ideale, emblematica, in tal senso, “Circe” nell’opera di John William Waterhouse.
L’interpretazione altamente sessualizzata di Lilith da parte di John Collier sottende il forte desiderio maschile, la stessa immagine che alla fine dell’ottocento diventerà progressivamente obsoleta, figure grottesche e caricaturali disvelano un ideale costruito e artificioso, mantenendo comunque i cliché di una femminilità nociva, come le sirene di Arnold Böcklin che trasforma il potere seduttivo di queste creature ibride nel suo opposto.
Bertsch suggerisce come queste opere «Visualizzano relazioni di genere ormai superate e mettono in scena il corpo femminile in modo erotico che spesso appare sessista e misogino ai nostri occhi moderni. Le opere sono in larga misura prodotti, nonché proiezioni di fantasie distintamente maschili».
Viene tracciato un ponte tra passato e presente in cui la figura della femme fatale entra in contrapposizione con la figura della “new woman”: le donne non agiscono più solo nei loro ruoli domestici come mogli e madri ma prendono parte alla vita politica e sociale, indossano abiti maschili e lavorano come artisti e impiegati d’ufficio, ma anche come ballerine di riviste, cameriere e lavoratrici del sesso. Con tagli a caschetto, labbra rosse, tailleur, cappelli e sigarette, rappresentano la contronarrazione di uno stereotipo che verrà rielaborato dagli anni ‘60, in particolare in Jeanne Mammen, con opere fortemente simboliste, e Gerda Wegener, nei ritratti di Lili Elbe, in cui affronta tematiche riguardo il binario maschio-femmina.
Al più tardi, le artiste dell’avanguardia femminista lavorano su immagini stereotipate della donna, creando nuove narrazioni di femminilità, sessualità e fisicità. Alla dissoluzione dell’immagine della femme fatale contribuiscono anche le decostruzioni di Ketty La Rocca, così come le appropriazioni ironiche e sovversive di Birgit Jürgenssen. Allo stesso tempo, le artiste reinventano le figure mitologiche classiche, a lungo viste come femmes fatales, sottilmente rimesse in scena, da Francesca Woodman, o come figure oltre i confini binari di genere, in Sylvia Sleigh. Potenti rappresentazioni della fisicità femminile, come quelle di Maria Lassnig o Dorothy Iannone, alla fine, forniscono immagini positive che lasciano molto indietro la narrazione di una sessualità stereotipata.
«Gli attuali artisti femministi non devono più combattere l’immagine della femme fatale, ma possono ri-appropriarsene e riutilizzarla», afferma Bertsch, «Guardare indietro ed essere consapevoli delle circostanze storiche ci aiuta a capire meglio dove siamo oggi e cosa deve ancora essere fatto». Ecco il fil rouge che lega opere così distanti ma che, riunite, restituiscono una lucida fotografia delle conquiste dell’emancipazione femminile, su quanto ancora si possa fare e sul ruolo di testimone e promotrice che l’arte abbia in queste battaglie.