«… Il Sud è sempre stato per me una seconda patria spirituale e una delle basi del mio lavoro» affermava Karl Hofer nel 1953, riferendosi a quel cantone, il Ticino, in cui oggi il Museo Castello San Materno di Ascona celebra il suo primo decennale di attività di riscoperta culturale con una mostra dedicata al pittore, disegnatore e grafico tedesco che, nelle parole dell’Avvocato Stefano Steiger, «conferma che la cultura è tutt’altro che superflua, è parte fondamentale di quello che si vuole essere».
La mostra nel Museo Castello San Materno, curata da Harald Fiebig, è organizzata e sostenuta dalla Fondazione per la cultura Kurt e Barbara Alten di Soletta in collaborazione con il Museo Comunale d’Arte Moderna e il Comune di Ascona, e presenta una selezione di 29 opere che hanno ispirato il suo titolo, Figure, nature morte e paesaggi: il percorso prende le mosse da una rappresentazione trasognata di figure, passando per le nature morte, arriva a una concreta pittura paesaggistica.
Nella prima parte, dove protagoniste sono figure in cui – fa notare il curatore – «si rintracciano, visivamente, molto influenze che hanno agito su Hofer, dal post-impressionismo alle declinazioni più tribali, passando per i grandi capolavori della storia dell’arte» ci muoviamo tra ritratti di ragazze (Scena Tropicale del 1917, e Ragazza con vaso blu, del 1923, per esempio, o Nudo femminile sdraiato davanti a una finestra con paesaggio montano, del 1939-40, o ancora La Ticinese del 1940) e autoritratti, di cui è straordinario esempio l’Autoritratto con modella, del 1909. Proprio questo autoritratto ben testimonia il sincero entusiasmo che Hofer provò per le opere di Eugène Delacroix e Paul Cézanne così come per quelle dell’Antichità e del Rinascimento, di El Greco e da due lunghi viaggi nel sud dell’India.
Non tragga inganno la scelta del termine «influenze»: proprio Hofer scelse di chiudere la sua autobiografia con queste parole «Ogni tipo di naturalismo mi è stato estraneo fin dal principio. Non ho mai realizzato un soggetto figurativo seguendo la casualità della manifestazione esteriore della natura. Perciò l’Impressionismo non ha saputo emozionarmi, né mi si addicevano le estasi dell’Espressionismo. (…) l’uomo e la natura umana erano e sono l’eterno soggetto delle mie raffigurazioni, raffigurazioni intese in un senso più profondo, quasi religioso. Bisogna avere il coraggio di non essere moderni».
Risulta quindi difficile inquadrare Hofer, senza dubbio uno dei più grandi pittori figurativi tedeschi del XX secolo, che seppe sviluppare quel suo personalissimo stile espressivo che gli valse un posto di rilievo fra le avanguardie novecentesche.
Tornando all’Autoritratto con modella, l’opera è indicativa di un cambio di stile. Non solo la pennellata a secco cede il passo a una più corposa e fluida ma l’intero quadro prende un movimento completamente nuovo in cui – ben afferma Doris Hansmann nel testo del catalogo che accompagna l’esposizione – «possiamo scorgere una dichiarazione della sua nascente consapevolezza artistica». Ecco, al di là di rimandi che sono umani, fin troppo umani – tra questo autoritratto e L’atelier del pittore di Gustave Courbet, per esempio, o tra Due donne con suonatore di liuto e Le Déjenure sur l’herbe di Edouard Manet o il Concerto campestre di Tiziano, e, ancora, gli Arlecchini e Mardi Gras di Paul Cézanne e tra il Nudo femminile sdraiato davanti a una finestra con paesaggio montano e l’Olympia di Edouard Manet o la Venere con Cupido e suonatore di organo di Tiziano – è proprio questa consapevolezza che squarcia l’apparenza e svela la grande unicità del pittore tedesco.
Spesso Hofer si è concentrato sul nudo – «non perché lo ritenga più significativo di altre cose, ma perché è nelle mie corde e perché è su quel fronte che sta il mio talento, e questo è l’essenziale», sentenziava l’artista – ma non mancano, anche in mostra esempi di nature morte, di cui sono esempi Natura morta con bricco, caraffa e bicchiere (1943), o anche Natura morta con liuto (1921). Sono molto diversi i due dipinti, pur appartenendo a uno stesso genere: quello degli anni ’20 è sensuale, quello degli anni ’40, che coincide con un momento tragico – sono gli anni del Terzo Reich e della II Guerra Mondiale – sembra possa crollare da un momento all’altro in un mondo privo di incertezza.
Lungo il percorso non potevano mancare gli Arlecchini – sempre negli anni ’20 clown e maschere, da Arlecchino a Pierrot a Colombina, occupavano occupavano un posto significativo nella produzione di Hofer. «L’artista – parola sua – deve essere espressione della sua epoca in una rappresentazione senza tempo». In mostra il curatore Fiebig ha saputo creare un interessante dialogo cromatico con Figura lunare del 1952, un’opera a metà strada tra figurazione e astrazione in cui la figura non è che costruzione piramidale con una testa sferica priva di volto e costituita da segmenti cubici.
La mostra prosefue e ci chiude al secondo piano del museo con ancora una serie di figure, come Fanale e Giovani bagnanti e Fanciulli con palla o Uomo in montagna, tutti degli anni ’50, e con una selezione di tre paesaggi svizzeri. Non sono paesaggi idilliaci – ci sono un Paesaggio ticinese con fiume e ponte, un Paesaggio ticinese, una Vista sul Lago di Lugano – sono paesaggi familiari di una nazione, la Svizzera appunto, che per Hofer è stata un fattore decisivo nella produzione e nella vita privata: a Winterthur, da giovane, sperimentò i primi successi, e nel Ticino, sua patria di elezione, divenne pittore di paesaggi, oltre che di figure. E proprio nel Cantone, Figure, nature morte e paesaggi ne celebra la grande unicità.
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