«Una nuvola quando non è più nuvola è pioggia». Essere quello che si è, un’artista. «Nessuna vocazione, devozione o professione – dice Fina Miralles (Sabadell, 1950) – ma tutto ti porta a questo e ti spinge a essere ciò che sei». Questo rapporto poetico con la propria natura, se da una parte è intriso di significati attuali e profondi, dall’altra ha l’ambizione di metterlo in discussione. Una volontà che si esibisce in una forma costante di rinnovamento, che segue un iter vitale di crescita in un habitat, che può diventare una gabbia. Guardando la grande foto all’inizio della mostra “I Am All the Selves that I Have Been”, curata da Teresa Grandas e visitabile al Madre – Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina di Napoli fino al 30 gennaio 2023, vengono in mente le parole di Van Gogh al fratello Theo: «Un uccello chiuso in gabbia in primavera sa perfettamente che c’è qualcosa per cui egli è adatto, sa benissimo che c’è qualcosa da fare, ma che non può fare; che cosa è? non se lo ricorda bene, ha delle idee vaghe (…), e batte la testa contro le sbarre della gabbia. E la gabbia rimane chiusa, e lui è pazzo di dolore».
Il percorso inizia proprio con questa installazione, Images del zoo, esposta per la prima volta nel 1974 alla Sala Vinçon di Barcellona, all’interno di un negozio di design. Miralles, in primo piano, è chiusa in una gabbia con una serie di animali “domestici”, mentre sulle altre pareti campeggia una serie di foto di animali, questa volta “selvatici”, intenti a guardarli. L’idea è quella di cambiare e invertire il punto di vista, di indagare e soffermarsi sul concetto di opera d’arte e di normalità, qui messi sotto accusa, in tutta la loro teatralità artefatta.
L’immaginario degli zoo evoca le mostre etnografiche – o zoo umani – allestite durante le fiere mondiali del XIX secolo, per mostrare le varietà di popolazioni indigene, provenienti dalle colonie, sfruttate dalle grandi potenze occidentali. L’Installazione fa un po’ da apripista per tutta l’esposizione, perché esprime la scellerata corsa al potere dell’uomo sull’ambiente / natura, ponendo il dubbio, critico, sull’idea di autorità.
Il paesaggio Naturaleses naturals, naturaleses artificials (Nature naturali, nature artificiali) come da titolo mette a confronto elementi naturali, decontestualizzati, con la loro versione artificiale, a volerne sottolineare la sottile linea di precaria libertà. Ancora una volta, Miralles sembra voler mettere alla prova, facendo dialogare elementi appartenenti a uno stesso comune gruppo, ma dal significato diacronico. A personificare la forma ibrida, un vecchio proiettore fa scorrere sulla parete una serie di diapositive con elementi naturali, tratte dal film “Fenòmens atmosfèrics” (Fenomeni atmosferici).
Questo gioco di contrasti tra categorie di ibridi, è presente anche in Translacions (Traslazioni), una raccolta di fotografie di azioni realizzate nel 1973. La prima azione, svoltasi nel Parco della Ciutadella di Barcellona, consisteva nel dipingere gusci di lumaca con pigmenti di diversi colori. La seconda, sulla spiaggia di Premià de Mar, consisteva nel far galleggiare sul mare un’area di erba di quattro metri quadrati utilizzando una piccola barca a remi. In queste azioni, l’artista sperimenta nuovi ordini, collocando gli elementi naturali in luoghi diversi da quelli di appartenenza.
Il gruppo di fotografie intitolato Relacions (Relazioni) documenta due serie di azioni. Relació del cos amb elements naturals (Rapporto del corpo con gli elementi naturali, 1975) e Relació del cos amb elements naturals en accions quotidianes (Rapporto del corpo con gli elementi naturali nelle azioni quotidiane, 1975). Nella prima serie, il protagonista è il corpo dell’artista, che viene ricoperto da una serie di elementi naturali fino a esserne interamente seppellito. Nella seconda, si fa appello alle azioni quotidiane, che compiamo quasi meccanicamente. Queste serie testimoniano le difficili connessioni tra corpi e materiali, spesso al limite.
Ciò che emerge dalla mostra di Fina Miralles al Madre, è la forte influenza che la società capitalista infonde nel nostro modo di vivere. Una critica al potere, che si proietta, insinuandosi nella vita quotidiana, negli oggetti personali, persino negli affetti famigliari, che divengono un’estensione del concetto di proprietà. «Le scarpe che espongo con il mio nome sulla suola, come un timbro d’ufficio, e il fatto di stampare il mio nome su tutti i luoghi che attraverso non fanno altro che ribadire questo senso di possesso e di potere, di appropriazione delle cose fino all’assurdo e all’impensabile, affermando che anche il luogo in cui cammino è mio. E di mia proprietà».
In Petjades una telecamera inquadra Fina Miralles mentre va in giro per la città. Il mezzo che utilizza per sottolineare questo senso di “appropriazione delle cose”, sono le suole delle sue scarpe, intagliate in modo da rilasciare il suo nome e il suo cognome, precedentemente impressi nell’inchiostro, a ogni passo che compie. Come una firma, esegue un gesto che fa parte della normalità ma che nasconde un’anomalia, quella di invadere lo spazio pubblico.
Standard è una forte performance sull’idea di genere della donna, che Miralles presenta nel 1976 alla Galeria G di Barcellona. Seduta su una sedia a rotelle, l’artista aveva le mani e i piedi legati, la bocca imbavagliata da una mantiglia. Davanti a lei venivano proiettate immagini che mostravano una serie di eventi sociali che caratterizzano il genere femminile: il matrimonio, la maternità, la vita domestica, la bellezza idealizzata, l’essere oggetto di desiderio. Contemporaneamente, una televisione e una radio trasmettono i programmi dell’epoca, incentrati sugli stereotipi che influenzano le donne. Standard condanna un sistema che vuole manipolare l’immagine femminile con un ruolo predefinito e approvato nel tempo. Durante la proiezione si assiste alla pressione a cui è sottoposta l’artista, che non è data dalla sedia a rotelle ma dalle immagini che è costretta a vedere.
Miralles, convinta nel rifiutare le convenzioni accademiche apprese alla Facoltà di Belle Arti, inizia a produrre, nel 1979, opere in cui sperimenta la pittura senza pennello, come in Doble horitzó (Doppio orizzonte), in cui gioca con la tela e il telaio, concepiti come una struttura di assenze e vuoti. «Separando le due componenti del quadro, il telaio e la tela, e utilizzandole come elementi di espressione e di costruzione, ho realizzato strutture che, insieme agli elementi naturali, non riproducevano paesaggi ma erano paesaggi in sé».
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