-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Bronzi, acrilici e flussi di coscienza: intervista con Alessandro Twombly
Mostre
Mi inoltro a passo lento nella splendida mostra di Alessandro Twombly – “Flow” – allestita nella galleria di Alessandra Bonomo, e i miei occhi non sanno su che cosa soffermarsi più a lungo, tanto è forte il richiamo e la bellezza di queste forme che sprigionano un’energia intensa, magnetica, molto coinvolgente. Scrivere ? O parlare un poco con Alessandro? Ho deciso di scegliere la seconda strada, per trattenermi con lui, che non mi sembra sia solito raccontarsi spesso. Alle 11 carte dipinte ad acrilico, fragranti e aperte come frutti che si offrono provocanti ai nostri sensi più allerta, si accompagnano sei bronzi di fattura classica, dove istinto e voglia si placano, trasportandoci in una dimensione di profondità e trasparenza.
Ci siamo visti qui da Alessandra Bonomo nel 2017 in occasione della tua ultima mostra. Possiamo dire che tu sia un antico habitué di questa galleria, sin dalla tua prima personale nel 1986. Raccontami come sono andate le cose.
«Con Alessandra ci siamo conosciuti attraverso Mario Schifano, ai tempi della sua relazione con Alighiero. Anche mio padre frequentava Schifano. Un giorno ci trovammo a via di Grottarossa e da lì partì tutto».
Ti ritrovasti a esporre da Alessandra con dei giovani che allora erano ancora delle promesse: Tristano di Robilant, Alberto Di Fabio, Andrea Marescalchi. Ho pensato spesso che la vostra generazione ha dovuto attendere parecchio, perché il mondo si accorgesse della sua esistenza. I grandi padri, infatti, hanno tenuto a lungo la scena, non solo in arte, ma in tutti gli altri settori, anche della critica, della politica e della letteratura. Ad alcuni questo ha fatto anche piacere. Ha significato poter lavorare tranquillamente, lontano da sguardi invadenti, dentro le pieghe della storia, in una condizione di pacifica invisibilità. Tu cosa ne pensi?
«Non ci ho mai veramente pensato. So che da bambino, disegnavo tutto il tempo. A scuola mi mettevano spesso in castigo, perché invece di ascoltare le lezioni, ero intento a disegnare. Avendo due genitori artisti, poi a un certo punto, andai a proseguire i miei studi all’estero per sette, otto anni. E ho abbandonato per un poco la vena del disegno. Ho studiato Storia moderna. Poi quando ricominciai a disegnare e a dipingere per un po’ sono stato assistente di studio di Sandro Chia, e poi, ancora dopo, frequentai un breve stage in una scuola artistica».
È curioso, ma io penso che è molto diversa l’esperienza di un giovane che sta solo con i propri coetanei rispetto a chi ha amicizie anche fra i più grandi.
«Essendo figlio unico io ero un ragazzo molto introverso, chiuso in me stesso e non avevo grandi frequentazioni, né di coetanei, né dei più grandi di me».
Ti sei, quindi, formato da solo, basandoti sulle tue ricerche. Nella tua opera c’è una notevole preminenza della natura, vista da prospettive molto diverse, ma con un occhio sempre interno, attento alla germinazione della forma. Mi vengono in mente le parole di Van Gogh, quando nelle sue lettere scrive di voler dipingere il movimento interno del filo d’erba che cresce, anche a costo di deformare e distruggere la sua naturale bellezza.
«Quando avevo quattro o cinque anni mia madre allestiva dei “giardini” nella casa della nonna in via Appia Antica e io piantavo dei semi. Misi una ghianda, allora, che ora è un albero di trenta, quaranta metri dentro la proprietà di mio cugino Andrea. Fu mia madre a influire su questo approccio verso la natura. Poi c’era il castello in Val Gardena, un posto da fiaba, circondato da boschi. E sin dalla più tenera età ho sviluppato anche una grande passione per i funghi. Questo ha alimentato il mondo della mia fantasia. Le piante sono una cosa straordinaria si può davvero stabilire un dialogo con loro, perché percepiscono le energie umane».
Infatti. Il testo De Harmonia Plantarum, citato dal più grande etnomusicologo del XX secolo – Marius Schneider – l’autore del celeberrimo “Le pietre che cantano”, spiega dettagliatamente come la voce umana sia dotata di ipertoni che trasmettono alle piante una straordinaria energia, benefica per la loro crescita.
«Ho anche viaggiato moltissimo. Sempre. Molto in Sud America, in Medio Oriente, Marocco e ho formato una grande raccolta, direi una vera e propria collezione di pietre. Dal deserto e dal Turkana, invece di una cartolina, come souvenir porto delle pietre, di tutte le forme e texture».
Continuo a voler sapere, perché tu hai studiato storia. Tuo padre senz’altro la storia l’ha molto amata.
«In Italia, negli Anni ’70, le scuole avevano sempre qualche problema. Così attraverso dei suoi amici che avevano figli in collegio, mia madre pensò di mandarmi a studiare in Svizzera – su nella parte francese – un bellissimo posto. Sono stato lì circa quattro anni, un periodo magnifico, con altri giovani simpatici, in cima a una montagna. Facevamo un sacco di attività fisiche, di escursioni ed esplorazioni, e molto sport. Sono amicizie che conservo ancora oggi».
Ma la storia? Perché hai studiato storia?
«Io sono sempre stato pessimo in matematica, invece ero molto bravo in Geografia e Storia. In geografia ero bravo perché m’incuriosiva il mondo. E la storia mi piaceva, avrei forse preferito fare Storia antica, perché mi sembrava più ricca di spunti, personaggi, ma mi accettarono per Storia moderna».
Io conoscevo solo alcune delle sculture che sono presenti in questa mostra. E’ curioso perché mi evocano tantissime cose, ma di fatto poi non sono nessuna delle cose che mi evocano. Hanno un timbro del tutto particolare, infatti, loro specifico.
«Questi sono dei bronzi fusi poco più di un anno fa. Li abbiamo messi insieme, trovando un nesso fra loro, con Alessandra con cui mi frequento da anni. Tre, quattro mesi fa, quando ha visto le ultime sculture, io le ho proposto di fare la mostra. Sono contento che abbia accettato».
C’è un dialogo tra questi elementi pittorici e quelli scultorei, dove tutta la materia si condensa. Qui è come se la materia si contraesse e si “scrivesse”, diventasse “scrittura del mondo” nel suo farsi, in qualche modo.
«Beh, diciamo che la pittura è un trasporto immediato, il colore ad esempio. L’idea invece non tanto, voglio dire che se c’è un concetto alla base, però, è solo generico».
È quasi una variazione su un tema infinito, questa tua opera. Un po’ come quando Heidegger dice che ogni componimento poetico “parla, muovendo dal tutto dell’unico poema.
«Esatto. Io, praticamente non posso concepire le une senza gli altri. Le sculture sembrano più pensate, ma in realtà sono eseguite per lo più inconsciamente, senza un’idea preliminare. Seguo dei movimenti e assemblo dei pezzi insieme».
Stavo guardando questo acrilico su carta, che è l’unico dove metti insieme più pezzi come in un collage, poi ci torniamo. Dovresti spiegarmi bene da cosa ha origine l’immagine che tu fermi in scultura o in pittura.
«Le scultura fatte in argilla sono più costruite come idea, ma a volte il castello cade e io comincio a ricostruirle».
Ma con le mani o anche con strumenti?
«Con le mani sì, ma anche nel modo tradizionale, con strumenti per lavorarle. Alcune di queste sono fatte con il gesso. Questo veramente l’ho visto da mio padre. Lui faceva delle orme sulla sabbia e poi ci buttava dentro il gesso.
Ha fatto molti lavori in questo modo. Con la sabbia, in campagna, mi sono fatto costruire un’aiuola. La bagno, poi creo un’impronta con le mani e ci butto dentro il gesso. La forma, così, viene molto rustica, in genere non la ritocco».
Le conservi il suo aspetto originario. Tu parlavi di assemblare. Forse cerchi di riproporre il processo che nel tempo distrugge e poi ricostruisce una nuova struttura, partendo da quella originaria. Imiti la storia naturale, l’evolversi e il concatenarsi delle forme in qualche modo. Ma pensavo anche a certe sculture di Picasso. Alcune delle più celebri, nascono da un montaggio di elementi poveri: cartone, pezzi di oggetti reali di cui, solo parecchio tempo dopo, fu fatto un calco, poi realizzato anche in bronzo.
«Beh, sì li ho usati, anche il cartone, ma poi le cose si fondono insieme, non restano visibili come realtà separate, è un procedimento un po’ diverso».
No, certo, ma m’interessa questo problema della forma, questo alveo che ospita ciò a cui poi tu darai forma ed immagine. Quando hai cominciato esattamente a fare scultura?
«Ho fatto una scultura tanti anni fa, fine Anni ’80. All’epoca ci frequentavamo con Nunzio, lui mi portò – non ricordo più se in auto o in treno – a Pietrasanta e la prima scultura in gesso l’ho fatta fondere lì. Poi sono stato dieci anni in America, a New York, ho fatto delle pitture tutte bianche con degli elementi scultorei dentro, c’erano figure, anche con la sabbia».
C’erano dentro dei materiali, quindi.
«Sì, all’epoca mi piaceva molto Fontana. Prendevo spunto anche da lui, nei primi Anni ’90».
Si vede bene il dialogo che esiste, come dicevo, tra le sculture e i dipinti, che sono tutti acrilici, mi pare.
«Beh sì, io adoro l’olio, ma non ho la pazienza per fare l’esecuzione, allora uso l’acrilico, si può renderlo brillante, adoperando certi sistemi. Ho bisogno di lavorare rapidamente. L’olio è magnifico, l’ho usato tanto in passato, ma non ho più la pazienza di lavorarlo. Ad esempio queste carte che vedi – ce ne saranno una diecina qui – ma ne avrò strappate almeno 500, per avere quel che cercavo».
E il risultato è meraviglioso. Dicevo prima che le tue opere evocano tante cose, ma poi sono anche completamente diverse. Penso a Giacometti, ad esempio – credo non ti dispiaccia che lo citi – ma in Giacometti si sente il vuoto. Qui, come ti accennavo, si sente il turgore della nascita. E c’è la “scrittura”.
«Le sculture le ho fatte con il metodo di cui ti parlavo prima, con la sabbia. Funziona molto bene quando vai a fare la fusione, perché si crea una bella superficie».
Sì, una superficie che si muove, scorre, è in gestazione.
«Alcune le ho fatte a New York, poi le ho riportate qui».
Fonditori a New York?
«Ce ne sono, ce ne sono. Tutti matti, magari non hanno la tradizione, ma hanno l’amore della tecnica. In fondo la scultura è anche un’alchimia, c’è un’originale, ma non ti aspetti mai quello che viene fuori in seguito. Il che è anche bello, a me piace, perché riserva sempre una sorpresa. Magari di primo acchito non ti piace, poi lo rivedi e piano piano…Ad esempio, tutte queste sculture le avevo buttate nel giardino, poi le ho riviste un poco alla volta, nei mesi. E ho fatto tutte queste piattaforme in travertino che, forse, avrei voluto anche un po’ più rustiche».
La doppia base, naturalmente mi fa pensare a Brancusi che ne faceva anche due o tre, una sopra l’altra. Però questa com’è nata?
«Beh, chiaramente per dargli un’elevazione da terra».
Sì certo. Ho un’altra domanda. Io ho sentito qui il colore della scultura, come una cosa molto importante, c’è una patina molto sapiente. In realtà viene da pensare che escano da un fondo marino.
«Beh sai, il mio profondo è un cercare di pescare l’archetipo, se vuoi, anche inconscio, mi piace che la scultura dia il senso del brut, che non sembrino necessariamente dei bronzi».
Come dirti, quando sono entrata ho sentito il mare, come quando qualcuno pesca dei reperti archeologici che sono stati sommersi per secoli. Sono quindi corrosi e consumati dal tempo e dall’acqua salata e hanno assunto quel caratteristico colore verdastro.
«Io sono stato un grande esploratore in apnea di fondi del mare, forse nella mia testa c’era il vago ricordo della pesca del corallo».
E direi, anche, c’è un dialogo tra la profondità e la superficie. A volte la materia si assottiglia e si appiattisce come fermando uno spruzzo.
«Questi sono anche incidenti di lavorazione e ci sono parti che sono fatte con quella tecnica dell’impronta oppure si tratta di aggiunte di pezzi residuali di altre forme e sculture».
La riflessione che stavo facendo è che in fondo tutto ciò che è sferico, o vicino alla sfera, tende ad arrestare il movimento, invece nel tuo lavoro, a un certo punto, è come se avessi l’urgenza di far partire qualche cosa, di farla scattare e fuoriuscire in uno slancio che viene tutto dall’interno. Per questo parlavo di nascita. Potrei dire élan vital, l’impulso creativo che interagendo con la materia, dà corpo a un’evoluzione senza fine, cioè universale. Adesso stavo guardando ancora le sculture, mentre mi sposto e cammino nella stanza. E’ incredibile la quantità d’intrecci che con i loro giochi di pieno e di sottile, di esile e di forte riescono a suggerire, dando luogo a sorprese, sicché a seconda di come le guardi e del punto di vista, una forma può sembrare una testa o a volte anche un calice, non sai bene, e le cose, comunque, prendono a trasformarsi sotto i nostri occhi.
«Casualmente e non, a volte prendo un pezzo e lo metto su qualcosa d’altro e si crea una condizione di bilico, di equilibrio instabile, precario. Nella fusione poi questo va un po’ perso».
Ma proprio questi elementi, guardando il catalogo della tua prima mostra nell’86 da Alessandra Bonomo, c’erano già tutti. Impressionante.
«In quel periodo andavo spesso in Turchia».
A volte è quasi imbarazzante. Tuo padre faceva dei riferimenti specifici, erotici e sessuali. Qui non ci sono riferimenti, ma in realtà, si sentono, fortissimi, il motore e il ritmo della pulsione.
«Questo è uno degli ultimi disegni che ho fatto, c’è una specie di “spirito”».
Uno spirito come nel Vudù? Spirito-segno del profondo?
«Forse un Vudù, ma europeo. Un certo tipo di energia. Sembrerebbe un po’ retorico, ma ci ho messo una scritta, Göbekli Tepe, che è il posto incredibile che ha scoperto un archeologo tedesco nella zona Sud-Est della Turchia. National Geographic ha fatto un grande servizio, dovresti vederlo».
Il periodo del Covid mi ha immerso in altre storie e mi sono perduta un sacco di cose.
«Questa scoperta ha sconvolto tutte le teorie sulla civiltà. Si è trovata un’architettura nel luogo dove c’era una comunità formata dai cacciatori-raccoglitori. Però fatto 7000 anni prima delle Piramidi. Praticamente le prime forme, il primo tempio fatto dall’uomo. Una scoperta molto recente, in un sito dove si scavava da un po’. Importantissimo, perché la civiltà agraria si è scoperto che si era sviluppata molto prima. Poi ci sono state delle forme d’arte. Avevano fatto un tempio, con una colonna di molti metri di altezza, con gli animali, le pantere, le vacche, gli esseri umani rappresentati sopra. Tepe vuol dire collina. Un luogo misterioso da cui è partito tutto».
Non vorrei mettere la parola fine a questo discorso, un po’ stream of consciousness in sintonia con la mostra – Flow – che viene da lontano e va lontano, ma sono sicura che lo continueremo.