La mostra porta il titolo Impronte di Luce ed è affidata alla curatela di Jonas Storvse.
L’analogia è quel meccanismo che, come voleva Goethe, fa ridondare umanità e natura, visione esistenziale e atteggiamento scientifico in una danza armonica, intonata con la natura più e meglio di quanto accada in molte odierne riflessioni sull’ecologia.
Ma al meccanismo dell’analogia, intesa come dispositivo di senso, rimandano le impronte, tanto più quelle di luce. Esse sono immagini che involontariamente lasciamo nello spazio che abitiamo: sono le nostre tracce, più o meno consapevoli. La traccia come memoria del contatto e insieme testimonianza della sua assenza, evoca il pensiero del filosofo francese Georges Didi Huberman, che non a caso si è più volte occupato del lavoro di Penone. Internazionalmente riconosciuto come il più importante e significativo artista italiano vivente, Giuseppe Penone (Garessio, 1947) presenta qui una serie di lavori appartenenti a diversi periodi del suo percorso artistico, che, com’è noto, si snoda a partire dagli anni Sessanta fino ad oggi.
Dentro e oltre l’arte povera, l’opera di Penone si qualifica come un profondo lavoro di ricerca che si configura nell’atto di porsi in ascolto così della materia come della natura, attraverso un paziente lavoro di scoperta attuato fisicamente, con le mani e il tatto. La scultura si configura in Penone, nelle sue stesse parole, come un rapporto tattile tanto con lo spazio quanto con il tempo. Le impronte lasciate dalle mani dell’artista sui materiali, così come quelle rilevabili all’interno del cranio umano lasciate dal corpo morbido e vitalissimo del cervello, hanno a che fare con il tema dell’identità. L’identità qui è, però, tanto quella dell’artista quanto quella del corpo naturale, sia esso legno, o foglia, o spine di acacia, che nell’opera si mette in gioco.
All’inizio del percorso espositivo siamo accolti dai celebri alberi ritrovati dall’artista nel legno squadrato (Albero libro, 2002; Ripetere il bosco, 1969-2022), cui fanno da contraltare alcune opere fotografiche che hanno per tema sempre gli alberi e le mani dell’artista, colte nell’atto di lasciare la propria impronta (Alpi Marittime. Continuerà a crescere tranne che in quel punto, 1968-78).
In un’altra bellissima sala, alcune opere a parete di grandi dimensioni disegnano, con migliaia di spine d’acacia ora un paio di gigantesche labbra colte nell’atto di donare un bacio imprimendo la propria traccia, ora l’impronta di un dito, da cui si propaga un moto circolare che si fa prima spirale e poi vortice potenzialmente infinito, ora palpebre che si chiudono, quasi a voler ribadire, come afferma l’artista, che il tatto corregge ciò che la vista, se offuscata da pregiudizi percettivi e di pensiero, non coglie. Ogni spina si pone come punto di contatto, terminazione nervosa della pelle, nel gioco/scambio di dare e ricevere, baciare e restituire il bacio.
Le venature del marmo si fanno allora, altrove (Impronte di corpi nell’aria, 2023) simili alle vene che irrorano di sangue e vita il corpo umano. Come a prendere il calco dell’aria, dello spazio che la circonda, l’opera restituisce la forma variegata delle vene del marmo nella loro plastica somiglianza al sistema linfatico, nervoso e venoso del corpo umano. L’opera appare allora come un rullo, un flusso continuo, analogico e costante. Infatti, così come la spina insieme ricorda ed eccita la terminazione nervosa, la pietra è analoga al corpo vivente.
In Avvolgere la terra. Il colore nelle mani (2022) sono le impronte delle mani dell’artista a lasciare il proprio segno/forma sulla terra, imprimendole la plasticità di una sagoma leggibile. All’esterno è invece posto un lavoro degli anni Ottanta, dove la vegetazione entra prepotentemente nell’opera, fino a fondersi in essa, come Dafne inseguita da Apollo nel mito e nella celebre lettura del Bernini.
Infine, l’ultima sala ospita lavori più recenti, dove appare il colore. Le tele hanno tutte la misura di 183 centimetri, quella che Le Corbusier definì come la misura ideale di un essere umano. Sulle tele, dipinte nei colori originali voluti sempre dall’architetto francese, si stagliano impronte gigantesche di mani e dita. Sono le impronte delle mani dell’artista, riprese tratto per tratto, fedelmente, dal sapiente uso di un pennello. Le tele sono sporcate da colori diversi da quelli di Le Corbusier, in un’opera di volontaria contaminazione.
Dentro e oltre l’arte povera il lavoro di Penone si svolge in un costante dialogo con materia, natura e natura dei materiali. C’è una dimensione sensuale nell’opera, nel suo realizzarsi ponendosi in ascolto, con le mani, nell’atto dell’agire proprio come avviene quando compiamo piccoli gesti ripetitivi che favoriscono la meditazione, come il ricamo o la cerimonia del te descritta da Okakura. Occorre seguire il materiale, lasciare che le cose seguano la propria natura e trovino da sé la propria forma, proprio come avviene nelle relazioni umane.
Nel primo canto del Paradiso, invocando Apollo, Dante cantava la sordità della materia, che tanto difficilmente si piega alle intenzioni dell’arte. Nel caso di Penone, il lavoro dell’artista è completamente opposto. Dafne è sfuggita ad Apollo e, lungi dall’essere sorda, la materia parla, anche se lo fa senza parole. La natura parla con le mani, quelle dell’artista, e insieme con il suo e il proprio tatto. Così l’opera viene alla luce, così che l’artista lascia la propria impronta: segno di un dialogo e di una rispondenza, traccia certa di un passato avvenuto e insieme ispirazione di futura memoria.
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