La mostra di Ferruccio Orioli, “Fortezza Europa”, a cura di Anna Maria Romano e Claudia Borrelli, nella chiesa e sagrestia di Sant’Erasmo a Castel Sant’Elmo, a Napoli, è nata da un’idea di Marta Ragozzino: riproporre in un allestimento unico una selezione delle opere dell’artista e architetto incentrate sui temi delle barriere tra gli Stati, delle migrazioni e delle loro conseguenze umane, tra quelle già presentate nelle tre precedenti esposizioni: “Noi di qua, voi di là” (Napoli, dicembre 2018, presso Fiorillo arte), “Sulle sponde di questo mare” (Matera, luglio 2019, presso La Scaletta) e l’ultima “Abbandonati tra mare e cielo” (Napoli, dicembre 2021, presso La Casa di Vetro). Questo nuovo allestimento si pone l’obiettivo di chiarire il senso di work in progress del lavoro di Orioli su questi temi complessi e scottanti e di ricomporne il senso unitario.
Ferruccio Orioli, che torna a Castel Sant’Elmo dove nel 2011 invitato da Angela Tecce aveva esposto l’opera monumentale Orbita ellittica ora allestita nell’atrio della Scuola Politecnica e delle Scienze di Base della Federico II a Napoli Est, propone un percorso di visita della mostra, che ricalca il cammino della sua ricerca. Esso si apre sull’elenco delle 44.764 persone, migranti, richiedenti asilo e rifugiati – di cui si stima che l’80% siano morti in mare nel tentativo di raggiungere l’Europa nel periodo dal 1993 al giugno 2021 – pubblicato dalla UNITED Against Refugee Deaths. EU, un grande pannello che si specchia nella foto presa dall’alto di un natante stipato di profughi in mezzo al mare. Quest’immersione nel dramma che stiamo vivendo racconta anche il momento di svolta nel percorso narrativo di questa epica tragica dell’autore.
Si parte dalle figurazioni statiche di figure, muri invalicabili tra stati, barriere di filo spinato per arrestare flussi di persone in fuga dalla guerra e dalla povertà o impedire l’accesso alle coste e si passa lungo l’immagine del guscio sfondato di una barca naufragata, una grande composizione di 16 fogli di carta dipinti e ricongiunti: opere in cui la matericità inquieta con la sua dura concretezza. Compiuto il giro alla fine si entra nel volume allestito al centro della chiesa, in un cubo nero come una kaaba rovesciata, che racchiude al suo interno figure evocatrici femminili, immagini di sculture arcaiche provenienti da terre gravitanti sul mare nostrum. Evocato in una mappa cinquecentesca veneziana (citazione autobiografica dell’autore), che lo rappresenta “a testa in giù”, il che aumenta il nostro scombussolamento, e da voci che risuonano come un mantra “Vi abbiamo partorito a milioni, sulle sponde di questo mare, per vivere in pace”, recitato in varie lingue. L’allestimento della mostra sembra cosi volersi assumere l’obiettivo rassicurante di ricomposizione del conflitto fra le civiltà, le religioni e le ideologie confinanti e intrecciate che nei secoli si sono estremizzate e separate schierandosi dietro trincee di guerra o anche solo di riti inconciliabili.
Il messaggio raggelante del pannello di apertura con l’elenco dei profughi dispersi nella loro fuga ricompare nella sala della sacrestia, con il racconto rarefatto e suggestivo della vicenda dei 71 migranti alla deriva verso la morte, in una barca partita il 27 marzo 2011 da Tripoli per raggiungere terre protette e riportata dopo aver finito il carburante in Libia in un crudele epilogo. Questo viaggio viene evocato in 12 acquarelli di paesaggi marini svuotati di ogni traccia di vita, come se fossero quelli visti dalla fantasmatica profuga all’interno del natante, Malayka, una del gruppo dei migranti segnalato dal colore giallo nell’elenco all’ingresso, crudelmente trasportata e morta in quest’avventura fatale: una probabile sequenza che riproduce il drammatico percorso durato quattordici interminabili giorni di andata e ritorno dalla costa libica.
Come teche in un museo della scienza, sul vetro di ciascuna opera è dipinta la posizione nautica della barca e l’orientamento della sua lenta e inesorabile deriva in quell’ora, come ricostruito dalle rilevazioni ufficiali che hanno asetticamente documentato quel viaggio senza far null’altro. Paesaggi marini deserti in cui la splendida luminosità dei colori è il controcanto del monito alla memoria imposto dai gelidi appunti meteogeografici. Nella stessa sala, in esposizione per la prima volta, un filmato nel quale scorrono, pagina dopo pagina come una sperimentale animazione, tutti gli acquerelli su carta d’India contenuti nell’album preparatorio della sequenza esposta, con i testi dell’artista letti da Regina Orioli, la colonna sonora di Vittorio Sica e le riprese e l’organizzazione di Elena Orioli.
Il titolo della mostra, “Fortezza Europa”, che riprende una definizione dell’associazione UNITED per stigmatizzare gli ostacoli materiali e morali messi in atto dagli Stati europei per chiudere gli accessi, richiama il nodo profondo delle opere di Orioli, ma dà anche ragione della scelta della sede. Da un lato, per la simbolica valenza intrinseca del Castello costruito nel XVI secolo da Pedro Luis Escrivà come fortezza inespugnabile e carcere senza scampo e, dall’altro, della sala che ospita l’esposizione, la chiesa dedicata a quel santo Erasmo, protettore degli uomini di mare, che chissà se veramente soffre della sua impotenza davanti a quel che accade ai nostri tempi sul “nostro mare”.
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