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Da Norma Mangione, a Torino, è in corso una personale di Francesco Barocco (1972), uno degli artisti di punta della galleria.
Per questo progetto, Francesco Barocco propone le sue sculture dipinte ed elaborate secondo criteri che si rifanno alla iconografia classica, ma mescolando in maniera non casuale epoche, riferimenti e sensazioni.
Protagonisti della mostra sono busti in gesso di personaggi dalle lunghe barbe. Potrebbero ricordare tanto il Mosé di Michelangelo, oppure un notissimo busto di Aristotele, o tanti altri esempi di arte classica: ma in realtà nessuno di questi riferimenti è assolutamente valido e verosimile o, piuttosto, lo sono tutti. L’idea è proprio quella di esporre la classicità dandole una dimensione tipica ed estremamente riconoscibile, esaltando nel contempo altre caratteristiche come la ripetitività dei modelli, il loro trasformarsi in stilemi in sé stessi riconoscibilissimi, ma che al contempo perdono la forza legata all’individualità del soggetto, alla sua personalità e al suo essere personaggio storico o di fantasia.
I busti, infatti, sono volutamente non finiti, anzi lavorano proprio su un concetto di non-finito che, anche qui in modo ironico, rimanda al non-finito michelangiolesco. Le opere appaiono volontariamente abbozzate, così come abbozzato è l’intervento cromatico su di esse, realizzato con semplici carboncini.
In un caso paradigmatico, diverso dalle altre opere in mostra, e il busto rivela un volto femminile che emerge dal colore steso con le dita quasi fosse dapprima celato nel bianco del gesso, proprio come dal marmo di Michelangelo emergeva il contorno della statua scolpita, come se questa avesse sempre abitato il marmo che la conteneva e l’artista non fosse che il suo liberatore.
Altre opere mostra sono invece leggermente più definite: si tratta di profili in gesso dall’aspetto di sorta di bassorilievi o mattonelle, che hanno al loro soggetto sempre figure classiche dallo stile molto riconoscibile e insieme di vaga attribuzione concreta. Questa volta il colore è applicato con il metodo della parziale immersione nella tinta, che ricopre così soltanto parte dell’opera.
In un altro lavoro Barocco espone una serie di libri dalle pagine bianche, aperti sulla sola pagina scritta a matita, al centro e a mano. A campeggiare su questi fogli sono titoli di opere che hanno fatto la storia dell’arte, parole dense di significato e rimando per chi questa storia ama e frequenta.
La mostra nel suo complesso si compone così di opere che coniugano insieme ironia e classicità. Lavorando sulla riduzione al minimo comune denominatore di quelle che potremmo chiamare con Aby Warburg pathosformel, Barocco porta in luce ciò che della antica forma sopravvive e poi non lascia visibile che questa sopravvivenza, spogliandola di tutto il resto.
L’opera si fa, così, portatrice di un messaggio sottile, appena percepibile, e tuttavia molto presente e di sicuro impatto. È qualcosa che riguarda la storia, anzi le storie dell’arte e le sue memorie: quelle in cui le tracce del passato tornano ciclicamente, assumendo di volta in volta nuova veste e significato quando le raccontiamo e dispieghiamo nel nostro presente, mettendone così in luce l’infinita capacità evocativa.