Entrando nella Galleria Eugenia Delfini, Erin Johnson (1985) ci porta tra erbari, dove alcuni addetti si prendono cura del Solanum Plastisexum. Si tratta di un pomodoro problematico, perché dà vita a fiori maschili, femminili ed ermafroditi. Questo suo farsi in tre ha sconquassato la cristianità geometrica della scienza; come riporta l’ottima Wendy Lotterman nel testo in catalogo, ancora nel 1974 un botanico australiano scriveva che questa specie lo lasciava perplesso. Mentre i botanici si prendono cura delle piante, sul video scorre la corrispondenza tra Rachel Carson e Dorothy Freeman. La prima è stata la scienziata che ha scoperto – e denunciato – la furia cancerogena dei DDT nei tribunali statunitensi (mentre scriveva era probabilmente già malata di tumore). La seconda è stata la sua compagna di mente, amica, forse amante; al tempo non c’erano le parole, o forse non si potevano usare. Il titolo del lavoro fa da collante alle due sfere, spiegandoci che There are things in this world that are yet to be named (2020).
Frutti per relazioni
Il pomodoro ha una lunga relazione con l’ambiguo. La sua etimologia romanza scricchiola ancora del fraintendimento con la mela (il “pomme d’or”) e oggi nessun accordo è possibile tra chi lo considera frutto o ortaggio. In una giornata del 1820, un certo Robert Gibbon Johnson, colonnello e orticultore, salì sui gradini di un tribunale del New Jersey per mangiarlo pubblicamente. La sua incolumità sarebbe stata prova di commestibilità: alle soglie della modernità le fasce più basse della popolazione degli Stati Uniti non erano del tutto convinte che non fosse velenoso… È una strana coincidenza quella tra questo signore e la Johnson: non solo lo stesso cognome, ma lo stesso soggetto esattamente duecento anni dopo. Ribadisce, in un certo senso, che tutto è unito, come avviene nello scambio di arance del secondo video (Oranges, 2023) dove il frutto scorre di palmo in schermo, attaccato alla parete come un serpente; nessuno aveva mai connesso l’arancio al peccato… del resto, la malizia è sempre negli occhi di chi guarda (in questo caso di chi scrive).
Daisy Chain
Daisy Chain, titolo del progetto, è un termine che indica più cose: una corona di margherite, dispositivi connessi dall’elettricità e una formazione sessuale di gruppo. L’espressione evoca sempre processi di relazione, collaborazione e interazione tra persone o cose. Alla luce di questo, nel tono viola della galleria, l’occhio si posa sulle sculture in bronzo appese tra i due video: cinte che legano gli erbari, oppure le carni? Non lo sapremo, ma ringraziamo l’artista di continuare, ostinatamente, a tenere aperto il cerchio.
Erin Johnson è un’artista di base a New York. I suoi cortometraggi interrogano le nozioni di collettività, dissenso e identità queer con uno stile che intreccia il documentario con la narrazione. Johnson ha ricevuto un Master in Arti Visive e in New Media dalla UC Berkeley nel 2013, ha frequentato la Skowhegan School of Painting & Sculpture nel 2019. È stata nominata da Filmmaker Magazine uno dei 25 registi indipendenti più interessanti del 2022. Il suo lavoro è stato esposto, tra gli altri, al MOCA Toronto, al Munchmuseet di Oslo, e al Times Square Arts di New York.
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