Immaginate una rete che non costringe, non limita ma, piuttosto, apre nuovi valichi, libera lo spazio: questa è One wall a web through which the moment walks, una mostra curata dall’artista statunitense Jonathan VanDyke e visitabile fino al 13 gennaio 2024 presso gli spazi espositivi della galleria 1/9unosunove di Roma. Un’acuta azione demistificatoria quella di VanDyke, che fa interloquire la generazione di artisti italiani del XX secolo con quella attiva a oggi nella scena statunitense, smantellando ogni schema prestabilito e ogni tentativo di categorizzazione dell’artista e dell’opera in sé.
Nel periodo storico che stiamo vivendo assistiamo a una continua meiosi di cellule categorizzanti, ogni giorno una categoria già nota e stabilita si suddivide ulteriormente, ancora e ancora fino alla perdita totale delle sfumature a favore della genesi di miliardi di etichette adesive prestampate e pronte all’uso. Ognuno sceglie la sua – o se la fa incollare addosso. Ciò che ci viene presentato come infinite possibilità altro non è che una gabbia di incasellamenti ben definiti, e il rischio di cadere nel “paradosso della scelta” di Barry Schwartz è pressoché ineludibile.
La mostra si articola quindi intorno all’idea di sottotesto, di ciò che non è detto ma è intellegibile. Tutte le opere e gli artisti in mostra sfuggono ad ogni categoria, e nonostante ciò mantengono ben salda la propria identità davanti a sé stessi e davanti al pubblico. Non a caso tra le opere in mostra spicca con tutta maestosità un volto di De Dominicis: un pulitissimo segno di matita su una tavola di legno dipinta di tempera bianca, stendardo di un’arte libera, che non vuole farsi parente di alcuna corrente artistica già definita.
E accanto a lui Carol Rama, con due opere – una del 1964 (Senza Titolo) e una del 1975 (Segni e Luogo) – che ad uno sguardo poco attento sembrerebbero quasi appartenenti a due artisti distinti, proprio a ricalcare questo bisogno di slegarsi dal marchio, dal brand riconoscibile ovunque.
Anche nell’utilizzo dei materiali, le opere in mostra si distinguono per scelte completamente arbitrarie e fuori dagli schemi convenzionali. Accanto al telaio ricoperto di sicofoil di Carla Accardi (Trasparente, 1975) compare un’opera di Carla Edwards (They All Fall Down, 2010) realizzata con ritagli di bandiere americane tinte e candeggiate, un pezzo fortemente pittorico pur senza alcuna pennellata che mira alla distruzione del simbolo (la bandiera) verso un disorientamento percettivo dell’identificazione collettiva.
Accanto a loro, i disegni di corpi mutilati di Ellie Krakow, che non solo si pongono come diretti successori dei primi acquerelli di Carol Rama (opere che le vennero addirittura sequestrate nel 1945, durante la sua prima personale) ma i cui arti amputati sembrano riprendere vita nello spazio al di fuori del foglio, nelle ceramiche smaltate Body Frame (Nesting) – 2022 e Body Geometry (Light and Green with Cavity and Slit) – 2021.
Un’apertura verso lo spazio dell’altro e dell’altrove viene guidata dalle opere di Nadia Ayari, di origine tunisina, Fold 1 (2018) e Bend 2 (2018), due immagini pulite nel segno e sporcate dalla matericità degli impasti di oli lungamente lavorati e sovrapposti, un lavoro di accumulazione ad ampio respiro.
Mentre quasi sfuggono oltre i confini della tela le opere di Hwi Hahm (Speedy Tumbleweed, 2022; Cadence, 2022, A boy with doubts, 2022), “un’esclamazione di selvaggia bellezza e possibilità espressiva”, come le definisce VanDyke.
Oltre agli artisti già citati, in mostra si possono apprezzare i lavori di Dadamaino, Piero Gilardi, Kenji Fujita, linn meyers, Sreshta Rit Premnath, Julianne Swartz e un’opera dello stesso VanDyke.
Un progetto ambizioso e minuziosamente articolato, una collettiva che merita di essere visitata.
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