Indovinato e perfetto l’inserimento dell’Ospite Illustre (rassegna che dal 2015 nelle sedi espositive delle Gallerie d’Italia – braccio culturale e museale di Banca Intesa San Paolo, Istituto di grande efficienza e resilienza anche a livello internazionale – ha presentato nel corso di 15 edizioni numerosi capolavori provenienti da musei italiani e stranieri) nella sede di Torino in Piazza san Carlo: lo storico Palazzo Turinetti in cui il nuovissimo Museo ipogeo dedicato alla Fotografia s’innesta con il suo aspetto rigorosamente contemporaneo nella splendida struttura barocca coniugando con eleganza discreta e reciproco arricchimento tradizione e innovazione. Nessuno stupore quindi se, invece che nei sobri ambienti del nuovo Museo della fotografia dove sono posizionate le abituali mostre temporanee, ci si ritrovi al piano nobile (al secondo piano) dove eleganti decorazioni barocche fanno da cornice a opere di Intesa Sanpaolo più confacenti ad accogliere per la prima volta l’Ospite Illustre (fino al 12 gennaio 2025) con la mostra Gentileschi e Van Dyck. Due capolavori dalla collezione Corsini, curata da Alessandro Cosma incentivando gli studi sull’argomento.
In una sala del piano nobile, fanno bella mostra di sé due capolavori mai esposti a Torino: la Madonna col Bambino dipinta intorno al 1610 da Orazio Gentileschi e la Madonna della Paglia creata a Genova tra il 1625 e il 1627 da Antoon van Dyck. Provenienti dalle Gallerie Nazionali di Arte Antica di Roma (istituzione museale articolata in due sedi: Palazzo Barberini e Palazzo Corsini alla Lungara a Trastevere, in cui si conserva sostanzialmente intatta l’originale collezione settecentesca romana grazie alla lungimiranza di Tommaso Corsini che nel 1883 vende al Regno d’Italia il Palazzo con tutte le opere: quelle precedentemente spostate sono state recentemente riportate nella posizione originaria) dove dal Settecento si trovano a confronto nella “Galleria nobile” (a Palazzo Corsini) le due opere sapientemente acquisite dal cardinale Neri Maria Corsini (1685-1770), figura rilevante all’epoca dal punto di vista culturale e uno dei principali artefici del collezionismo della famiglia.
I Corsini, trasferitisi nel Trecento da Poggibonsi a Firenze, conseguono in ambito politico, economico, sociale e religioso (annoverano un santo: Andrea Corsini, carmelitano e vescovo di Fiesole dal 1349 al 1373) un’importanza crescente che aumenta ulteriormente a partire dalla seconda metà del Cinquecento. Con il trasferimento a Roma di Ottavio – ecclesiastico raffinato, capace e legato alla famiglia Barberini, in particolare al cardinale Matteo (futuro papa Urbano VIII) – e del fratello Filippo inizia un rapporto sempre più stretto con la città eterna, destinato a durare sino a fine Ottocento, mentre il ramo rimasto a Firenze si rafforza legandosi ai Medici. Il culmine del successo è raggiunto con Lorenzo (1652-1740) che nel 1730 è eletto papa con il nome di Clemente XII: anziano e dalla precaria salute, nomina cardinale il nipote Neri Maria (il cui fratello diviene viceré di Sicilia cosicché la famiglia estende la sua influenza fino a Napoli e Palermo). Costui diviene la figura chiave dell’azione politica e culturale del papa – tanto da sembrare lui quello vero – con interventi urbanistici di costruzione e restauro di grande rilievo (tra gli altri l’iconica Fontana di Trevi, l’apertura al pubblico dei Musei Capitolini con la pubblicazione dei relativi quattro tomi, l’imponente restauro e ampliamento di Palazzo Corsini, trasformato in reggia, che a fine Seicento ha ospitato la regina Maria Cristina di Svezia…). Un personaggio di tal calibro, pur oberato da innumerevoli impegni in politica interna ed estera, ha dedicato molto tempo alla sua quadreria la cui sistemazione è stata modificata più volte come testimoniato da vari inventari che ne rivelano il gusto raffinato e la profonda sensibilità … checché abbiano potuto dirne i detrattori. Tra i numerosi dipinti risplendono i due capolavori – “ospiti illustri” a Torino – restituiti a una vicinanza decisa a suo tempo dall’ecclesiastico amante della cultura.
Prima di soffermarci con estasiata meraviglia davanti ai due quadri che dialogano muti ma con una cornucopia di significati e valori, consideriamo le vicende esistenziali dei due autori. Antoon van Dyck (Anversa 1599 – Londra 1641), figlio di un ricco mercante di sete, manifesta subito attitudine verso la pittura e si forma prima con Hendrick van Balen, poi come apprendista presso Pieter Paul Rubens che avrà molta influenza sul giovane. Dopo un soggiorno in Inghilterra, va a Genova nel 1621 (quando vi arriva anche Gentileschi) dove rimane fino al 1627 visitando altre città italiane e studiando i maestri del Rinascimento, oltre a entrare in contatto con quelli a lui contemporanei. Al suo ritorno ad Anversa, apre un’attività con clienti importanti come l’arciduchessa Isabella d’Asburgo, dopo poco si trasferisce in Inghilterra dove capacità di catturare le personalità e talento gli valgono la nomina a cavaliere e pittore ufficiale di Carlo I di cui ritrae anche i membri della famiglia reale oltre all’aristocrazia locale. Sposata Mary Ruthven, una damigella della regina Henrietta Maria, ha una figlia pochi mesi prima della sua scomparsa, La sua tomba nella cattedrale di Saint Paul sarà distrutta da un incendio dopo cinque lustri;
Orazio Gentileschi (Pisa 1563 – Londra 1639), quando il padre, il pittore Giovanni Battista Lomi (figlio di Bartolomeo) scompare nel 1576, si trasferisce a Roma dove prende il cognome di Gentileschi da uno zio. Inizia a lavorare presso i cantieri avviati da papa Sisto V decorando alla tarda maniera romana la Biblioteca Sistina in Vaticano. A 30 anni sposa Prudenza Montoni dalla quale ha molti figli tra cui la famosa Artemisia. Negli ultimi decenni del Cinquecento, lavora per importanti chiese tra cui Santa Maria Maggiore, San Paolo fuori le Mura e l’Abazia di Farfa. L’incontro con Caravaggio – con cui nascono amicizia, scambi di oggetti per dipingere e frequentazioni assidue favoriti dal carattere sanguigno di entrambi – lo induce ad aderire al suo stile “dal naturale” scegliendo però una tavolozza più luminosa, un disegno più sicuro e un rigore quasi classico. Dopo il processo alla figlia nel 1612, si trasferisce a Genova nel 1621, lo stesso anno in cui vi arriva anche Van Dyck. Importanti commesse come l’Annunciazione lo portano alla Galleria sabauda di Torino, poi si trasferisce a Parigi alla corte di Maria de’ Medici, regina madre di Francia, e in seguito in Inghilterra al servizio di George Villers, primo duca di Buckingham. Malgrado qualche difficoltà nei rapporti con una parte degli artisti inglesi, essendo diventato grazie alle sue straordinarie capacità “maestro regale” resta legato alla corte di Carlo I e di sua moglie.
Trentasei anni dividono i due Maestri, non così tanti da non potersi incontrare non solo con i due capolavori destinati a tenersi compagnia, ma anche de visu, come è probabilmente successo a Genova nel 1621: il primo giovanissimo, sicuro delle proprie capacità e ambizioso, ma bravo anche a presentarsi con un tratto garbato e l’altro maturo con alle spalle una vita che non gli ha sempre arriso, ma indomito e consapevole della sua perizia e tutt’altro che umile. Un altro incontro avviene verso il 1635 quando Van Dyck ritrae in uno splendido e vitalissimo disegno (ora al British Museum) – che pare stia per animarsi – Orazio ultrasettantenne il cui sguardo torvo e corrucciato fa intuire un carattere coriaceo e poco incline alla bontà , come lo descriverà anche Giovanni Baglione nelle sue Vite de’ pittori, scultori e architetti, edito tre anni dopo la scomparsa di Gentileschi.
Eccoci davanti ai due capolavori dipinti a circa quindici anni di distanza e figli di modi diversi e comunque eccellenti di interpretare la “Madonna del latte”, antica e diffusa iconografia che mette in luce il ruolo di Maria come madre di Cristo e la natura umana del Figlio. Delle due opere si danno cenni essenziali per permettere da parte dei visitatori una libera e personale interpretazione rispondente all’io di ciascuno. Gentileschi (cui la Madonna col Bambino, prima ascritta a Caravaggio, è stata attribuita da Roberto Longhi) ha una stesura pittorica compatta e lucente mentre leggerissima e quasi filamentosa è quella di Van Dyck. La Madonna di Orazio se non fosse per il profilo dorato dell’aureola e i tradizionali colori rosso e blu dell’abito potrebbe rappresentare un tenero “scatto” quotidiano di famiglia con una qualsiasi giovane popolana abbigliata all’uso della Roma dell’epoca con i seni visibili, madre di un bimbo già grandicello che con la mano le tira la veste.
Van Dyck, invece, sulla scia dei grandi maestri rinascimentali italiani, reinterpreta il tema con una forte densità simbolica, inserendolo nel contesto della Natività . Obbedendo alle disposizioni del Concilio di Trento, non mostra un’immagine “sconveniente”, coprendo il seno di Maria con la testa del bimbo addormentatosi di botto dopo essere stato allattato. Molti i particolari che alludono alla morte e resurrezione di Cristo: la melanconia sul viso assorto della Vergine, la nuvola scura che invade la capanna e le spighe i cui steli formano una croce.
Un evento – da non perdere e di grande pregnanza – che grazie alla collaborazione tra Michele Coppola (Executive Director Arte, Cultura e Beni Storici di Intesa Sanpaolo e Direttore Generale Gallerie d’Italia) e Thomas Clement Salomon (Direttore di Gallerie Nazionali di Arte Antica) offre spunti e stimoli estetico-culturali di grande rilevanza a livello cittadino e nazionale ponendo le Gallerie d’Italia (con le sedi di Torino, Milano, Napoli e Vicenza) tra i più qualificati interlocutori di una cultura ragionata e per tutti come dimostra anche l’accesso libero ai giovani fino ai 18 anni di età .
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