Stratificazione della memoria in contrasto con la tentazione di un oblio espresso nell’atto della cancellazione e usando segni che si ripetono. Tutto ciò accade nelle 40 opere di Gianluigi Colin in mostra da Building a Milano: grandi e piccoli lavori pittorici che allontanano l’autore da quelli precedenti con la fotografia, pur mantenendo un filo costante con la sua biografia, in particolare, con la sua esperienza come art director del Corriere della Sera, oltre che come fondatore dello speciale inserto domenicale La Lettura: le tele sono quelle residue usate per la pulizia delle rotative degli inchiostri. Ma non per questo si tratta di una ricerca che si ferma entro i confini di una vicenda personale.
A cura di Bruno Corà , l’esposizione ospita una selezione di 40 opere inedite realizzate per questa occasione, un progetto che Colin studia dal 2011. «Ho sempre pensato alla responsabilità dell’artista di fronte alla Storia», dichiara Colin. «L’insieme dei miei lavori volutamente scelti per questa mostra dai toni drammatici, con rossi intensi, sfumature di nero, striature nere su fondi bianchi o azzurri, si presentano come simbolo di oblio incombente, inquietante e minaccioso. Un senso di costante indifferenza e dimenticanza che purtroppo appartiene al momento storico che viviamo. E allora tirare fuori il materiale che viene dalla stampa e dall’informazione, mi sembra che abbia il potere di evocare l’importanza di essere aderenti al nostro presente».
L’esposizione si snoda sui tre piani della galleria Building e raccoglie lavori realizzati negli ultimi tre anni, che sono il risultato di una ricerca concettuale iniziata nel 2011 sul dialogo tra le immagini e le parole e la loro storia. Una indagine sul sistema dei media e il rapporto con il tempo e la memoria. «Ma c’è anche la cancellazione di tutto quello che viene prodotto (con questo segno potente delle striature, ndr)», commenta il curatore Bruno Corà . «Esiste una sorta di spirito del tempo così cruciale che li rende tra i più avanzati esempi della pittura contemporanea».
Sono dipinti di diverse dimensioni – ma in mostra ci sono anche video e installazioni -, opere astratte con striature per ogni tela di diverse misure e con tracce di sedimenti cromatici. In tutte le opere si rintraccia una voluta ed evidente matrice comune data dalla ripetizione ma le differenze tra una e l’altra rendono potente la ricerca di un proprio “segno”, un’indagine che lo potrà far entrare nella storia dell’astrazione che ha caratterizzato l’arte del Novecento. Uno per tutti, Giuseppe Capogrossi. Una sorta di “vocabolario” che si ripete in ogni opera e che per lui è il mezzo per esprimere la tensione con la realtà .
La forza dei lavori è data anche dai colori scelti, dagli abbinamenti e dall’ampiezza delle campiture. Molte volte si cancellano altre pennellate di sfondo su ampi spazi di colore che, in certi casi, si alternano alle striature. In alcune opere gli stracci diventano forme indefinite e in altre sono carte di giornale accartocciate in dialogo con parole che ritornano: religione, sanità , rifugiati, riconciliazione. Sono opere più piccole ma con una nuova, propria identità per questi inserimenti di forme tridimensionali irregolari, una diversa dall’altra. Una sorta di ossessione per la pittura astratta per costruire una sintassi del futuro? D’altra parte, il titolo suggerisce il suo tentativo di creare un “dopo”, il Post Scriptum.
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