Eravamo a cavallo tra il 2017 e il 2018 quando Michela Rizzo, in collaborazione con Paul Stolper, decise di trasformare in realtà il desiderio di accogliere in galleria Brian Eno – che qualche mese dopo, nel settembre del 2018, presentò Ambient Paintings. Questo ricordo, mosso dalla stima e dall’affetto, premette in realtà un importante rapporto di collaborazione tra la gallerista e l’artista – recentemente insignito del Leone d’oro della Musica – che oggi, a distanza di sei anni (dalla prima volta, e di quattro anni dalla seconda) prende le forme della nuova mostra intitolata Gibigiane.
«È una parola bellissima, Gibigiane – racconta Brian Eno – perché traduce ciò che si vede in ciò che si mostra». E la similitudine che regala, «come se la luce si alzasse dall’acqua e si facesse vedere nell’aria», è qualcosa che, se noi la mettessimo sotto la lente dell’indagine, ci porterebbe a un quesito fondamentale – in generale e nel particolare, qui e ora, della mostra: conosciamo davvero la differenza tra vedere e guardare? Chi vede, infatti, non ha semplicemente guardato, ma si è spinto oltre raggiungendo l’obbiettivo dell’osservazione: ha capito, ha compreso, andando oltre lo sguardo in quella situazione in cui – afferma Brian Eno «What I wanted is to create situations where people can have a little time for themselves, where they don’t have to feel threatened or hurried or stressed» – le persone possono avere un po’ di tempo per se stesse, senza sentirsi minacciate o affrettate o stressate.
In galleria la mostra prende le mosse da una serie di serigrafie su velluto per aprirsi – nella buia ah hoc prima stanza dove il lento scambio algoritmico di luce, forme e colori crea un’esperienza coinvolgente – sui tre lightbox Field II, Umbria II (presentato, questo, alla Galleria Nazionale dell’Umbria, in dialogo con il Polittico Guidalotti, capolavoro del Beato Angelicoe) e River. Queste opere, uniche nella forma e nel colore, sono silenziose, ben intendendo che il silenzio non è assenza di presenza, di suoni o rumori ma, anzi, è un particolare e generativo modo di vivere la presenza, riconoscendo che cosa implica un ascolto, quali trasformazioni di noi stessi richiede. E sono lente, si, queste opere sono lente nel senso che si oppongono alla frenesia della società contemporanea e invitano a sospendere il tempo, a rallentare il passo e ad avvicinarsi a loro riconoscendosi parte dell’esperienza. Ecco, a tal proposito, proprio l’atto del riconoscimento – scriveva Amitav Ghosh – «segna notoriamente il passaggio alla conoscenza. Riconoscere, pertanto, non è la stessa cosa che entrare in contatto per la prima volta, né abbisogna di parole: quasi sempre il riconoscimento è muto. L’aspetto più importante del termine riconoscimento sta dunque nella prima sillaba, che rimanda a una consapevolezza preesistente».
Dalla stanza, salendo al primo piano l’occhio è allertato da Still e Ovation – due strisce luminose a LED e cemento poste agli angoli opposti della sala – a trovare l’unicità di ogni istante e della vita stessa di fronte a Turntable II, un giradischi funzionante che, quando non riproduce un disco, si trasforma in scultura luminosa. È sorprendente, ma davvero il silenzio e l’ascolto possono consentirci di ricongiungerci all’anima del mondo, che ci precede e di cui siamo effimera espressione. Ecco, qui l’ascolto e il silenzio assumono la connotazione di una conversazione con l’altro e il mondo, un modo di accorgersi del mondo, un modo lento di sentirlo e, quindi, di sentirsi.
Tornando al piano terra, il corridoio che trionfa di altre serigrafie su carta e velluto conduce nell’ultima sala espositiva, dedicata alla scultura Filipendula, un vaso in ceramica, altoparlanti, acciaio e componenti elettrici, e tre nuovissimi arazzi che Brian Eno ha realizzato da Giovanni Bonotto, ispirandosi a un gruppo di lavori degli anni ‘90 ottenuti usando Kid Pix, un programma di disegno ideato da Craig Hickman per bambini. «È la prima volta che li vedo, Brian», gli dico. «Le imamgini che sono all’interno degli arazzi hanno un po’ di anni, risalgono a venticinque, trent’anni fa – risponde lui – quando maneggiavo Kid Pix e mi sono accorto che dandogli degli input sbagliati il software produceva dei glitch. Ho iniziato quindi a esplorare quello che succedeva giocando e spingendo il software sbagliare, e quello che vedevo ho pensato di poterlo tessere negli arazzi, che mi piacciono molto».
È dunque l’inatteso, è la randomicità, è tutto quel che va oltre la nostra immaginazione: Gibigiane e il nostro futuro migliore.
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