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Giorni Felici? A Palermo si celebra il valore dell’esistenza
Mostre
di Giulia Papa
Yuri Ancarani, Per Barclay, Silvia Giambrone, Joanna Piotrowska, Genuardi/Ruta e Chen Zhen: sono loro i protagonisti di Giorni Felici?, a cura di Agata Polizzi, presentata da Fondazione Merz nell’infinito e immenso spazio di ZACentrale, che si conferma promotore e ponte di diverse iniziative artistiche che dialogano con gli spazi palermitani.
Giorni Felici?, è una di quelle mostre che già dall’interrogazione del titolo scelto, ti pone una serie di domande personali e non solo. Dopo averla vista senti di aver aggiunto, mutato, un tassello nel bagaglio esperenziale e, soprattutto, sentimentale. Istintivamente e, inconsapevolmente, nel leggere il titolo il nostro inconscio processa una serie di immagini felici che immaginiamo di trovare anche nella mostra, nulla di più errato. Ciò che ci aspetta nella grande sala è esattamente l’opposto. L’aria che si respira, i suoni che vivono nella sala, innescano in noi una sensazione di incertezza, solennità, paura e profonda tristezza. Agata Polizzi spiega: «Giorni Felici? prova a immaginare che è tempo di rispondere alla domanda partendo dai propri conflitti e limiti. Il sé è un elemento marginale se commisurato alla collettività, ma è anche l’elemento minimo costituente, che può determinare il cambiamento su grande scala».
L’esposizione trae spunto da una riflessione innescata dal romanzo Nudi e crudi (The Clothes They Stood Up In) di Alan Bennett (2001). Nel libro, i coniugi Ransome sono straordinariamente ordinari, avvocato pignolo lui, moglie rassegnata lei, entrambi sono i protagonisti di giornate fatte di sterili abitudini, lunghi silenzi e poca intimità. Non hanno figli, la loro è una relazione basata sulla solitudine che, giorno dopo giorno, si regalano vicendevolmente. Eppure, un evento tanto improvviso quanto bizzarro trasforma questa disutile vita coniugale per sempre. Al ritorno dal teatro, i Ransome scoprono che la loro casa è stata svaligiata. È svanita nel nulla. Ma cosa vuol dire tutto questo?, come fa una casa a scomparire?
Da questa trama, nella quale possiamo cogliere l’ironia paradossale della vicenda, captiamo parole e sentimenti chiave che, paradossalmente, ritroveremo nella mostra: sterili, lunghi silenzi, solitudine. A questo punto riflettiamo sulla drammaticità della quotidianità, ci poniamo una domanda semplice ma necessaria: è davvero questa la vita che vogliamo? Ci troviamo ad osservare la poetica di sei artisti che si intrecciano nel padiglione, una riflessione che invita l’osservatore a interrogarsi sulla domanda se quelli che viviamo siano o me o i veri giorni felici, se la vita che stiamo vivendo è davvero quella che abbiamo sempre voluto. Con questo bagaglio sentimentale ci apprestiamo a vivere la mostra, concepita come una narrazione progressiva.
I lavori dei sei artisti si susseguono con poche interruzioni, dialogano tra loro accomunati solo dal tema iniziale per poi dare la propria percezione delle vicende personali e sociali e rivoluzioni che diventano poi ‘fatto culturale’.
Ad accoglierci in una stanza buia è il film di Yuri Ancarani, Séance del 2014, un viaggio personale che rimane solo visivo all’interno di un ambiente apparentemente familiare, rarefatto, ma custode di molti significati, in cui aleggia già un’atmosfera di profonda tristezza. A ragionare sul concetto di casa è l’opera di Barclay con l’installazione Senza titolo del 1992, la sua casa è un luogo immerso nell’acqua su cui si riflette la luce. Silvia Giambrone, con Mirror, specchi di diverse misure realizzati tra il 2019 e il 2023, lavora sull’alter ego insito in ognuno di noi e custode di ciò che avremmo voluto essere.
Lungo tutta la parete vivono gli scatti fotografici (2016-2019) di Joanna Piotrowska che focalizzano l’attenzione sul tema della fragilità dell’infanzia e sulle sue proiezioni nel presente, rileggendo il concetto di casa inteso come rifugio oppure prigione. Osserviamo figure umane che dialogano con ciò che da bambini concepiamo come casa.
Unico stralcio di colore, sulla parete opposta al lavoro fotografico della Piotrowska, è il lavoro site specific,Vestita di color fiamma viva, del duo Genuardi/Ruta, un’esaltazione del colore, un barlume di speranza in una sala in cui aleggia volutamente il grigio e il silenzio, un lavoro che per dinamicità sembra staccarsi dalla parete, per provare a infondere colore o, il riflesso del colore, nei lavori altrui. A tal proposito, mi piace riprendere dal comunicato stampa la frase: «La promessa della primavera che sta per arrivare», perché cosi è.
A popolare la parte centrale della stanza, quasi come un progredire di intensità, è il lavoro di Chen Zhen, Jardin Lavoir del 2020. Letteralmente “giardino della lavanderia”. Il lavoro popola la sala, ma ci dà una sensazione di silenzio, spopolamento, di fine. Gli undici letti ci toccano nel profondo. Undici letti annegati in un continuo fuoriuscire di acqua, undici letti che conservano per l’eternità oggetti tra i più disparati, testimoni di vita, testimoni dell’accumulare della vita e delle sue fasi, custodi del significato della vita di ogni singola persona. Sono letti antichi che si alternano a culle, a significare proprio i diversi periodi della vita e il suo progredire: culla, letto singolo, letto matrimoniale. Si conservano giochi per i bambini, bottiglie di vetro, pezzi di bici, computer, libri, oggetti da cucina: oggetti simbolo delle contraddizioni della società contemporanea e della nostra storia. Galleggiano, sommersi e deteriorati dall’acqua. L’impatto è forte e ci prepara all’ultima opera finale.
Il percorso espositivo si completa, e si chiude, sottovoce, con quattro posti a sedere, che invitano a una visione conclusiva immersa nel silenzio e nell’osservazione del video di Robert Wilson Winona Ryder (2004), a cura di Beatrice Merz, che anticipa la parallela rassegna Inter | Sezioni all’interno della del palinsesto ZACiak dedicata al cinema.
Ciò che ci rimane una volta osservata la mostra nella sua interezza, sono immagini contemporanee impregnate d’atmosfere misteriose e stupefatte, arcane e metafisiche, aride e spettrali, che si condensano in un silenzio desertico e lacerante: in una malinconia ghiacciata e scarnificata nella quale nulla si muove in un tempo astratto e immobile.