La Galleria Marrocco ha inaugurato, negli splendidi spazi di Palazzo Venezia a Napoli, la nuova stagione espositiva presentando la prima personale del giovane e promettente artista Giovanni Chiamenti (Verona, 1992). Titolo della mostra, curata da Letizia Mari, è “Sottosuolo subarmonico”, espressione derivata da un poema anonimo, “Il mormorio subarmonico del nero abisso tentacolare”, contenuto all’interno del testo di Eugene Thacker “Tra le ceneri di questo pianeta”. Se nel poema a cui si è ispirato Giovanni Chiamenti si descrive una rassegna di specie Archaeali e di batteri in un’ambientazione estrema che sconfina il limite tra vivente e non-vivente, nella realtà viva dell’esposizione lo spettatore si trova materialmente in contatto con questi microrganismi cellulari semplici che abbandonano l’invisibilità che gli appartiene per risaltare tra le pareti bianche della galleria.
Lo stesso autore ha infatti dichiarato: «La mia ricerca parte dall’osservazione e dall’ascolto della natura e del paesaggio. Cerco di entrare in relazione con loro, in modo da creare un legame, una connessione tra me e ciò che mi sta di fronte. Uno dei miei obiettivi è proprio quello di sviluppare un dialogo tra uomo e natura, creando forme che indaghino lo spazio, cambiando il punto di vista e indagando il nostro impatto sull’ambiente. Confondere gli spettatori in modo tale da non capire se stanno guardando una rappresentazione micro o macro e disorientare lo spettatore con un’altra visione dei luoghi che analizzo, fa emergere una realtà imprevista. Questo è nascosto ai più e appare solo a chi si sofferma ad osservare gli strati sottostanti. Questa realtà ha bisogno di tempo per venir fuori, e i materiali la aiutano a prendere forma tangibile per le loro caratteristiche di somiglianza a fenomeni naturali».
Le opere sono realizzate in ceramica Raku, tecnica di cottura della ceramica giapponese, nata in sintonia con lo spirito zen, in grado di esaltare l’armonia delle piccole cose e la bellezza nella semplicità e naturalezza delle forme. Chiamenti ha adottato, in particolare, la tecnica del Raku americano, utilizzando pigmenti, ossido di rame nero, nitrato d’argento e cristallina. I colori e le “ossidazioni” di cui si caratterizzano, contribuiscono ad esaltare quel senso di appropriazione dello spazio in un processo lento ed inesorabile da parte di qualcosa che percepiamo appartenere ad un mondo altro e diverso dal nostro.
E così lo spettatore resterà piacevolmente affascinato da queste creature sconosciute, osservandole strisciare sui muri, abbandonare i propri involucri in un processo di metamorfosi evolutiva stupefacente. Si tratta di ibridi generati dall’unione tra il mondo animale e vegetale (come le sculture centrali “Nimphaeceae Chloroticae”), appartenenti tanto al preistorico quanto a un futuro che possiamo solamente immaginare. Creature che provengono dal sottosuolo per riemergere in superfice, esseri stratificati, attraversati dall’acqua (come nelle sculture “Origo Fexuosa #1 e #2”) sotto forma di infiltrazioni che scavano l’opera dall’interno.
Chiamenti utilizza una nomenclatura scientifica, unendo a famiglie di organismi esistenti o esistiti nomi e aggettivi di fantasia utopistica; le sue opere sono farcite di rimandi alla scienza, all’archeologia, alla biologia fino all’arte della scultura e della ceramica. Nonostante il cambiamento di prospettiva data attraverso le opere in mostra, in questo panorama di continue narrazioni evolutive e di indagine del passato, quello che è certo è il raggiungimento di un’armonia estetica di indubbio valore accompagnata ad una dimensione temporale che si dilata silenziosamente senza alcuna interruzione.
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