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Gli esperimenti fotografici di Nidaa Badwan in mostra a Milano
Mostre
Nidaa Badwan porta la propria arte a Milano. L’artista palestinese, con cittadinanza italiana, racconta la sua storia, il processo che la porta a dare vita ai propri progetti fotografici. Ogni serie viene concepita in maniera diversa e lo si nota facilmente grazie ai colori, le sfumature, gli oggetti di scena che caratterizzano a cambiano a seconda del contesto in cui l’artista di volta in volta si cala. La mostra della Galleria Fumagalli si apre con un video realizzato dal regista Andrea Laquidara, che ritrae la Badwan con il suo team di collaboratori a Urbino mentre realizza la serie Rinascita all’interno della sua stanza. Il video cattura il backstage e l’anima del nuovo corpus di opere dell’artista e fotografa classe 1987, che attualmente vive proprio nelle Marche.
“Il mio intento è quello di curare me e gli altri attraverso le immagini. L’arte, essendo espressione della profondità di pensiero è rifugio e catarsi al contempo. È terapia che ci permette di sconfessare le atrocità di una vita essenzialmente vocata all’individualismo” afferma Nidaa Badwan a proposito della propria arte. Scatti legati a un’emozione, che l’artista riesce a far emergere in complessi lavori fotografici che disegna nella propria mente prima di inquadrare effettivamente l’obiettivo e scattare. Rinascita restituisce emozioni contrastanti, come la parola stessa porterebbe a comprendere. La rinascita in generale deve avvenire per forza di cose da una situazione di dolore, sofferenza, addirittura morte. Ed è proprio questo il motivo per cui Nidaa Badwan prende ispirazione dal pensiero filosofico di matrice induista, secondo cui l’uomo non ha accesso alla reale essenza delle cose, a quella sostanza o materia divina immortale celata alla sua visione che cerca costantemente di raggiungere e scoprire nel corso di un’esistenza fatta di ignoranza e sofferenza.
L’inedita serie fotografia tratta la vita personale dell’artista, ripercorrendo le fasi cruciali della sua esistenza a partire dal concepimento avvenuto nel 1986. Tra gli oggetti di scena all’interno delle composizioni troviamo sempre dei palloncini, talvolta gonfi, altre volte quasi completamente a terra. Gli stati differenti assunti da questi oggetti in foto aiutano a comprendere il forte simbolismo presente nelle opere della Badwan. I palloncini sono metafora di dolore, di sopravvivenza, simboli di un bagaglio che l’artista ha iniziato a riempire sin da quando era piccola, dalle origini arabe alla successiva fase di crescita vissuta nel territorio palestinese, nel sud della Striscia di Gaza. All’interno del clima di persecuzione nei confronti delle donne e di tutta la popolazione da parte del regime di Hamas, la Badwan è riuscita a farsi forza e a combattere per la dignità del suo popolo.
Un processo di rinascita che non viene bloccato neanche dall’aggressione subita da parte dei miliziani per via della non ottemperanza all’obbligo di indossare il velo nel 2013. In seguito all’evento, Nidaa si chiude in una stanza delle dimensioni di 3×3 metri a Gaza, dove scopre realmente se stessa attraverso una ribellione non violenta che la rende sempre più libera, nonostante il distacco dalla realtà. In questo contesto di clausura, realizza Cento giorni di solitudine, che nel 2016 viene pubblicata sul New York Times. Anni differenti, contesti nuovi, eppure alla base delle sue opere vi è sempre l’autoritratto. Simbolico è uno scatto dallo sfondo e dalle tinte gialle all’interno della mostra che rappresenta la fine del processo di rinascita e l’inizio di qualcosa di nuovo. Altri elementi simbolici sono le foglie d’oro, che la Badwan spesso posiziona sopra i palloncini, mentre nello scatto verticale appena descritto ricoprono il corpo dell’artista stessa, che ha raggiunto una condizione nuova di pienezza e rinascenza.
Vi è poi il ciclo de Le Oscure Notti dell’Anima, serie che nasce da un’operazione introspettiva che porta l’artista a confrontarsi nuovamente con la propria solitudine. Ancora una volta tornano i temi di matrice induista (e, se vogliamo, cari alla filosofia di Schopenauer), che si integrano con la cultura araba della Badwan. Radici che accompagnano in realtà tutta la produzione artistica della fotografa palestinese, che parte da una credenza secondo cui ogni persona si fa carico del dolore di sette generazioni precedenti. Una sofferenza che la madre passa al nascituro dopo i nove mesi di gravidanza. Il nove rappresenta quindi un numero ricorrente nella vita della Badwan: i primi nove anni passati ad Abu Dhabi, i diciotto a Gaza, i nove anni passati in Italia, “festeggiati” proprio nel 2024.
Statistiche e credenze a parte, la potenza espressiva delle sue fotografie esplode in opere che la ritraggono mentre suona, si muove, scompare e ricompare dalla scena, assume connotazioni inaspettate. Sfondi dai richiami caravaggeschi, sensazioni di solitudine e libertà che coesistono in scene che simboleggiano la ricerca della libertà, della pienezza dell’artista in quanto palestinese, donna, essere umano. Appunto, la sua rinascita.