«Può essere qualcosa che intimidisce, è enorme. Allo stesso tempo è entusiasmante. É una scatola nera, non ci sono pareti e la possibilità di vedere da un’opera all’altra è fenomenale, funziona benissimo» racconta Nari Ward che, con la mostra Ground Break, coglie l’occasione per costruire un dispositivo poetico, sfruttando le potenzialità dello spazio. Dal 28 marzo fino al 28 luglio l’HangarBicocca di Milano viene abitato dalle sue installazioni video: non si tratta di una semplice mostra, bensì di un’esperienza suggestiva che accompagna all’interno di un percorso in cui convergono circa trent’anni di ricerche.
La retrospettiva, a cura di Roberta Tenconi con Lucia Aspesi, trae il suo titolo dall’omonima opera realizzata specificamente per lo spazio in occasione della mostra. Nell’avvicinare i due termini, che designano continuità da un lato e rottura dall’altro, l’artista giamaicano suggerisce quanto il concetto di trasformazione e di ciclicità siano centrali per una comprensione profonda della sua pratica. Ground Break è un’installazione pavimentale che delinea sul suolo uno spazio d’emergenza, uno spazio magico e inatteso, quasi curativo. Formata da circa 4000 mattoni rivestiti in rame, l’opera funge anche da palcoscenico per un programma di performance in collaborazione con artisti e musicisti. È tramite i materiali usati e gli oggetti dispersi in maniera casuale sulla piattaforma che Ward produce una certa sospensione temporale, un primo accesso alla spiritualità che accompagna tutto il percorso espositivo. L’artista gioca con le emozioni, con i ricordi e con un certo concetto di tempo ma anche di tempismo, lo stesso che gli permette di cogliere così profondamente le carenze, e dunque le necessità, del contemporaneo. Con i suoi lavori, infatti, in modo particolare con i tre video presenti in mostra (Father and Sons, Jaunt e Spellbound), esprime il bisogno di comunità e di dialogo umano, toccando tematiche attuali come colonialismo, razzismo, giustizia e ingiustizia, spiritualità e identità.
Le sue installazioni, seppur enormi, non suscitano soggezione così come non imprimono un peso cupo e gravoso allo spazio. Al contrario, nel loro espandersi intorno a noi ci catturano, ma come fossero un nido, una culla, uno spazio in cui il tempo si è fermato. Così, la grande rete sospesa, dal titolo Hunger Cradle, trasforma l’ingresso in un tunnel, catapultandoci direttamente dentro ad un teatro onirico e mistico: i fili della rete tessono linee temporali che ingoiano frammenti di realtà, oggetti cui lo scorrere del tempo si aggancia costruendo delle istantanee di mondo. Hunger Cradle è un’installazione site specific che, realizzata a partire dagli anni Novanta, cambia e si adatta allo spazio che la accoglie. Si tratta di un’opera sempre mobile e sempre in trasformazione, una rete che raccoglie e conserva tracce della propria storia, arricchita ogni volta con oggetti ed elementi estratti dallo spazio o dal quartiere che la ospita.
Non manca in Ward una certa ironia tramite cui gioca con l’attualità, mettendone a nudo i paradossi e gli eccessi. Usando ciò che ci circonda trasforma il degrado in arte, restituendo dignità a ciò che è vecchio, consumato, abbandonato, a ciò che ormai considerato scarto. Con questi oggetti riutilizzati e rielaborati, l’artista realizza installazioni che dialogano con il passato e con la memoria. La sua è una pratica trasformativa che, oltre ad essere un’evidente critica alla società dei consumi, si oppone alla concezione occidentale di temporalità lineare. Su questa idea di riciclo, di ritorno e ricordo, si fondano opere come Carpet Angel in cui, costruito con sacchetti di plastica e scampoli di tappeti: un’immagine angelica sospesa su un cumulo omogeneo di bottiglie, viti, corde e altri oggetti. Ritornano qui le riflessioni sulla spiritualità e sul sacro che in quest’opera emergono dalla trasformazione e rielaborazione di ciò che viene scartato; è questa temporalità del ritorno che dà accesso alla ciclicità del tempo.
Il percorso espositivo si chiude con un’installazione di grande impatto emotivo. Con Happy Smilers: Duty Free Shopping Nari Ward costruisce un’opera spaesante. Si compone di due stanze comunicanti ma del tutto diverse: la prima ha pareti giallo acceso e al suo interno riverberano suoni che suggeriscono un’atmosfera allegra e festosa, ma accedendo alla seconda stanza l’ambiente e le sensazioni che ne derivano cambiano radicalmente. Al centro dello spazio si ergono pareti fatte di oggetti domestici che, legati tra loro da manichette antincendio, chiudono e nascondono al loro interno una bassa piattaforma coperta di sale, al di sopra della quale è sospesa una scala d’emergenza. Anche i suoni si fanno differenti rispetto a quelli riprodotti nella sala antecedente: un loop simile ad una litania riproduce il rumore della pioggia sui tetti di lamiera. L’installazione Happy Smilers: Duty Free Shopping formula un compendio terminale delle questioni centrali nella pratica dell’artista; è dentro quest’opera avvolgente che si chiude in maniera circolare quel sentiero interno ad una memoria collettiva, rendendoci partecipi di un modo comunitario ed essenziale di stare al mondo come elementi di una sola ripetuta temporalità.
Ad accompagnare la mostra, il progetto Home Smiles avviato a partire dal 2014: l’iniziativa prevede di raccogliere e sigillare i sorrisi dei visitatori in scatolette d’alluminio che verranno poi messe in vendita. I proventi sono destinati all’organizzazione Save The Children, attiva da oltre un secolo per tutelare i minori e garantire loro migliori condizioni di vita. Con questo progetto ci dimostra quanto l’arte possa avere un valore attivo e concreto. Tramite la sua pratica Nari Ward riesce a restituirci una visione tangibile e diretta del contemporaneo, le sue lacune e i suoi controsensi, senza però sfociare in una sterilità critica. Ci offre invece un’esperienza che, stimolando l’immaginazione e il ricordo, apra a modalità trasformative e consapevoli di esistere.
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