La sensazione è quella di avvicinarsi a qualcosa di intimo, sottile, di accarezzare una vibrazione, quella che segue il ritmo del respiro di Kazuko Miyamoto, in mostra al Museo Madre – Museo d’Arte Contemporanea Donnaregina di Napoli, fino al 9 settembre. Una mostra che si rivolge al presente, come un racconto che abbraccia più di 50 anni e che per la prima volta è oggetto di una ricognizione storiografica da parte di un’istituzione museale in Europa.
Primo progetto espositivo curato dalla neo direttrice Eva Fabbris, ci avvicina alla pratica di un’artista contemporanea in dialogo con la generazione di artisti in collezione nel museo.
Una mostra che fa «Luce sulla recente storia dell’arte», ha sottolineato la presidente della Fondazione Donnaregina, Angela Tecce, che con la neo direttrice ha esplicitato l’intenzione di creare un programma di mostre sensibili al periodo di artisti coevi, attualmente presenti al primo piano. L’idea di iniziare da un’artista fedele assistente e collaboratrice per diversi anni di Sol LeWitt, nonché membro attivo d A.I.R. lo spazio espositivo gestito dal pionieristico collettivo di sole donne di SoHo, New York, denota un’ulteriore attenzione verso la riscoperta del ricco universo artistico femminile.
«The most beautiful is to have nothing on the wall, the second most beautiful is to have line on it, and then the third is to break the wall», Kazuko Miyamoto, 1972.
Come nella geometria euclidea le rette possono incontrarsi in un solo punto, incidenti, così è stato nel 1969 per Kazuko Miyamoto quando, mentre lavorava nel suo studio, al 117 di Hester Street, incontrò il suo vicino Sol LeWitt, dopo che era scattato l’allarme antincendio.
Un incontro destinato a cambiarle la vita. La giovane Kazuko, amante della musica jazz, dopo gli studi artistici al Gendai Bijutsu Kenkyujo di Tokyo, si trasferì nel 1965 a New York, qui, si iscrisse alla Art Students League, sotto la guida di uno dei pittori più importanti del cosiddetto Rinascimento di Harlem, Charles Alston. L’amicizia che la lega ad uno dei principali protagonisti del Minimalismo, reduce da un viaggio in Giappone negli anni ’50 e ’70, la portano a realizzare quella che sarà una delle cifre stilistiche più rappresentative della sua ricerca, le string constructions.
Il percorso espositivo, finanziato con fondi POC, è stato oggetto di numerosi studi e ricerche realizzati in collaborazione con il figlio dell’artista, l’archivista Ilona Pacher e le numerose collezioni, pubbliche e private, come l’archivio della galleria Marilena Bonomo di Bari, che hanno concesso i prestiti. Più di 100 opere allestite tra il secondo e il terzo piano ripercorrono la sua carriera dagli anni ‘70 ai 2000.
Un linguaggio minimalista effimero che unisce diversi punti con linee non nette: «La distanza tra i chiodi – come si evince dalle sue descrizioni, ha rivelato Fabris – non è regolare perché il chiodo non è un punto ma un gesto di ancoraggio al muro».
Ed eccola Miyamoto, tra le sue string constructions, dalle più visioni tridimensionali, optical, il risultato di un ricercato equilibrio tra il figurativismo giapponese e il linguaggio astratto del Minimalismo, due mondi che coesistono senza annullarsi. Nel pattern geometrico di Untitled (1972) si vede proprio questa caleidoscopica sinfonia di echi, nella traccia che richiama la struttura di una scacchiera usata nel tradizionale gioco asiatico del Go.
Negli anni ‘80 prende corpo una materialità diretta attenta al naturale, all’organico, ben visibile nella scultura in corda e legnetti dedicata alla forma del Kimono, che ricorre anche in altre opere con stringhe che seguono il profilo dell’indumento tradizionale a forma di T, dalle linee dritte. È interessante come Miyamoto riveda la struttura a blocchi tipica di questo simbolo nipponico, che le è stato insegnato a cucire da bambina, come deposito di memoria sia individuale che collettiva. A differenza dell’abbigliamento occidentale, che viene tagliato per adattarsi ed evidenziare le forme, il Kimono viene creato unendo i vari pezzi rettangolari di seta filata a mano, cuciti insieme per nascondere la forma del corpo. Non è un caso che ritorni in forme nuove, come una cappa, nell’opera Cat in dialogo con gli Scribbles di Sol LeWitt, nell’ultima sala della mostra, come una trama ancora una volta, da reinventare.
Lungo il percorso si noteranno delle fotografie alle finestre, come dei ritratti che mostrano Miyamoto mentre è a lavoro. L’idea è quella di ricreare una mappa che crei un dialogo tra la street life di NY ed i colorati balconi napoletani.
In occasione della mostra, il museo Madre ha avviato una collaborazione con il Mao di Torino, afferente alla Fondazione Torino Musei, finalizzata alla realizzazione di un public program performativo e musicale, dal titolo Evolving Soundscapes, curato da Chiara Lee e freddy Murphy. Il primo evento si è tenuto durante l’opening della mostra e ha avuto come protagonista l’artista Hatis Noit, musicista giapponese che, come Miyamoto, combina le proprie radici con una cultura multietnica globale. Durante la performance, Hatis ha indossato Cloud, una scultura creata da Maurizio Anzeri, realizzata con filo, capelli umani e sintetici cuciti e tessuti fino a diventare un corpo solido.
Ad accompagnare la mostra un piccolo ma ricco catalogo cartaceo, anticipa l’uscita, in autunno, di una monografia a cura di Luca Cerizza, Zasha Colah ed Eva Fabris.
Prima di salire in terrazza, riaperta grazie al supporto degli Amici del Madre, ci torna in mente, mentre guardiamo a fine percorso i due video Come un uccello (2014) e Umbrella (2002), il collage con Miyamoto, nuda tranne che per una maschera, che esegue un sollevamento yogico della gamba nel suo studio davanti a un paio di costruzioni cubiche di Sol LeWitt. In quest’opera ritratto, Miyamoto rivela tutta la sua complessa quanto varia identità, come un gioco fisico ed emotivo, tutto da scoprire.
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