Avviso per gli appassionati d’arte contemporanea e nostalgici da sfavillii anni ’80: alla galleria genovese ABC-ARTE c’è un Tomas Rajlich (Jankov, 1940) d’oro, e d’annata, che vi aspetta. Con Golden times si entra nell’orbita di una Pittura Assoluta luminosamente concepita e razionalmente reale; che non incappa nella finzione prospettica, per non negare il proprio senso di profondità. Bidimensionale ovviamente. Poiché la mostra ce ne dà l’opportunità (applauso), seduta stante entriamo in territori criticamente coltivati. Abbiamo pensato bene di rubare una frase dal testo di Claudia Rajlich (nulla a che fare col comunicato stampa), appeso al muro nella seconda sala: «… e perfino l’osservatore comprende visivamente che è una tela bidimensionale dipinta dalla mano di un artista». Condividerla coi nostri lettori è questione di deontologia, perché più che un semplice concetto espresso è un pacchetto completo. Fatto di quelle poche parole che riassumono le prodezze di un artista per cui coscienza e complementarietà di “gesto” e “stratificazione” costituiscono la chiave di tutto. O, se più vi aggrada, l’assoluto di Rajlich. Artista che analiticamente elenca – su tela, tavola o tela applicata su tavola – tutti i termini della propria pittura. Senza mai mischiare alcunché, ma gestendo accuratamente ogni passaggio con estrema sincerità, anche nei reticoli a grafite non perfetti, che trasudano una manualità totalmente umana.
La pittura di Rajlich è pittura che non recita una parte. È di produzione umana. E ciò che è umano non necessariamente dev’essere anche “bello”. O perlomeno così la pensa chi sta mettendo insieme questo pezzo, che nel buio della sua cameretta darebbe testate contro il muro ogni volta che sente tirare in ballo, puntualmente a sproposito, l’automatica sinergia arte-bellezza. Capiamoci: un Untitled piccolo piccolo del 1980, cosi come in un dittico ben più grande di due anni successivo, sono bellissimi per il sottoscritto. Che, pure, è cosciente di come la qualità di un’opera (e di chi l’ha fatta) non sia data da quanto l’oro riesca ad appagare omeopaticamente il suo senso estetico. Dalla bellezza in quanto tale, insomma. Concetto così poco concreto da non star bene addosso a Rajlich, artista-emblema del fare arte nel nome della razionalità non soggettiva. Nel nome di una pittura non calata da chissà dove, bensì frutto di un’operazione reale e realistica, tra supporti lasciati a vista, acrilici che colano o superfici dense e spesse. Superfici meritevoli di più d’un quarto d’ora di celebrità per quell’essere aggettanti in un costrutto pittorico bidimensionale. Che dimensionalmente tale resta, sia perché Claudia Rajlich ha indiscutibilmente ragione; sia perché il Rajlich, padre e artista, degli anni ’80 si presenta troppo a fuoco per farsi fregare dalle smanie dell’illusionista spaziale. Così tanto a fuoco da implementare il repertorio analitico, tirando fuori quella griglia in grafite con cui abbiamo chiuso il paragrafo precedente; passandola sulla superficie pittorica come una rete, assecondando ogni esuberanza spaziale della materia pittorica. La linea retta, piatta, segue il profilo della pittura, inchiodando alla sua bidimensionalità l’intera creazione.
Anni 80′ e oro hanno avuto un valore cruciale sul nostro artista. Golden times, esposizione criticamente ragionata, è lì a farlo presente. Direttamente da quella “Bibbia” intitolata 100 Small Paintings (volumone fisicamente presente e consultabile), tutto Rajlich in un unico ambiente: un’infilata di piccoli lavori in cui la ricerca analitica nasce, cresce e si sviluppa, incrociando sul suo cammino nuovi temi e nuovi mezzi per esprimerli. E pure se quelli esposti proprio 100 non sono, bastano a dare una misura della mutazione rajlichiana dal 1969 al 2018, con gli anni ’90 a segnalare un upgrade in termini di capacità espressiva. Quella capacità che proprio gli anni ’80 e l’oro luccicante hanno tenuto a battesimo. Quella che ha traghettato il buon Tomas verso orde di brillantissimi glitter.
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