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“Habitus. Indossare la libertà” a Palazzo dei Pio, Carpi. Le parole di Manuela Rossi
Mostre
di redazione
Fino al 6 marzo 2022, i Musei di Palazzo dei Pio a Carpi, a pochi chilometri da Modena, ospitano la mostra “HABITUS. Indossare la libertà”, a cura di Manuela Rossi, Alberto Caselli Manzini e Luca Panaro. Ideata e prodotta dal Comune di Carpi – Musei di Palazzo dei Pio, col contributo di Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi e Assicoop Unipol Assicurazioni, «Presenta una serie di indumenti iconici, come abiti ispirati all’anticorsetto di Paul Poiret, i primi pantaloni creati da Coco Chanel per le donne, la minigonna, gli hot pants, i bikini, i jeans, la giacca destrutturata di Giorgio Armani, e molti altri ancora che hanno contribuito all’emancipazione, alla sovversione di paradigmi e canoni e alla liberazione dei costumi sociali», ha spiegato l’istituzione.
La mostra è parte del programma del “festivalfilosofia” 2021 sulla Libertà, che si è svolto a Modena, Carpi e Sassuolo a settembre 2021.
Di seguito, la nostra intervista a Manuela Rossi, Direttrice dei Musei di Palazzo dei Pio e curatrice della mostra “HABITUS. Indossare la libertà”.
Come è nata la mostra “Habitus. Indossare la libertà” e come si colloca nella programmazione dei Musei di Palazzo dei Pio?
«La mostra nasce con due obiettivi: da una parte, ci dà l’occasione di guardare il modo in cui viviamo con uno sguardo indagatore, che mette sotto osservazione un ambito che tocca tutti, quello della moda inteso come “habitus” (come recita il titolo della mostra mutuato da una definizione del filosofo francese Pierre Bourdieu), che non è solo ciò che indossiamo, ma anche come e perché lo indossiamo, dall’altra ci consente di valorizzare la peculiarità produttiva del territorio, quel tessile che dal Dopoguerra si è avvicinato al mondo della moda, connotando Carpi e il suo distretto. In “Habitus” c’è un pezzo della nostra terra e la sua identità, il suo genius loci, e parte della nostra storia più recente, quella del “secolo breve”».
La mostra guarda alla moda del Novecento come veicolo e contesto di liberazione sociale, con particolare riferimento alla storia dell’emancipazione femminile. Su quali aspetti di questo processo storico e sociologico si sofferma, in particolare, il percorso espositivo?
«Siamo andati a cercare nella storia della moda europea (Parigi, soprattutto) e di quella targata U.S.A. i momenti in cui la moda, con la società, ha segnato un salto di qualità non solo in termini di innovazione e di invenzione estetica, ma anche nella graduale liberazione del corpo, soprattutto quello femminile. Sono scatti in avanti che, come racconta questa mostra, riconosciamo anche nell’arte e nella fotografia (a cui è dedicata una parte importante del percorso), nella musica, nel cinema, nel modus vivendi del mondo occidentale, dai primissimi anni del Novecento fino agli anni Ottanta.
L’influenza della moda nella storia ha coinciso in particolare con un concetto tanto ampio e complesso quanto semplice e immediato: la libertà. Ritrovata o scoperta, la libertà si è intrecciata con le fitte trame della moda in molteplici occasioni, dai primi pantaloni femminili ideati da Coco Chanel, ai celebri jeans, passando per la rivoluzione rappresentata dal bikini (che compie 75 anni quest’anno), fino al wrap dress di Diane von Fürstenberg, solo per citare alcuni dei capi esposti».
Come questa mostra si colloca nel contesto storico ed economico di Carpi?
«Oggi il mondo della moda in generale, e quello di Carpi non è escluso, fa i conti con diverse questioni, due delle quali sono preponderanti: la crisi generata dalla pandemia e le tematiche legate alla sostenibilità. In particolare rispetto a questo secondo aspetto, la domanda alla quale vogliamo provare a dare una risposta è: come la moda del XXI secolo può aiutare a salvaguardare il pianeta? È parte della storia e per questo non può esimersi dall’essere protagonista di un modo di vivere diverso e più attento all’ambiente e al lavoro delle persone che la moda la fanno, la compongono, la cuciono».
Da dove provengono i materiali esposti?
«I materiali esposti provengono da archivi di moda del territorio e da collezioni private. Una sessantina di capi storici provengono dall’archivio di Modateca Deanna di San Martino in Rio e di Angelo Vintage Archive di Lugo, oltre a capi vintage di privati. Alcuni capi in forma di installazione sono stati prestati da aziende del territorio come Champion Europe e Cosabella. L’apparato fotografico è invece frutto di una collaborazione con l’archivio di Getty Images, ma soprattutto di una ricerca nell’archivio carpigiano del Labirinto della Moda. A questi si aggiungono poi i materiali fotografici che nel corso dell’ultimo decennio sono stati prodotti da attività di ricerca e di esposizione dei Musei di Carpi, che hanno studiato le campagne fotografiche di griffe carpigiane con fotografi del calibro di Helmut Newton, Albert Watson».
Può indicarci un paio di elementi esposti a cui prestare particolare attenzione per la loro storia, la loro provenienza o il loro significato nel percorso espositivo?
«I capi rappresentativi e preziosi sono tanti, in mostra troviamo le principali griffe di moda del Novecento, da Chanel a Courreges, a Yves Saint-Laurent, Gaultier, Armani, Diane von Furstenberg, Moschino, fino alla carpigiana Blumarine. Ma penso che ci siano tre capi particolarmente rappresentativi del percorso.
Il primo, in ordine cronologico, è un power suit rosa antico datato agli anni Quaranta del Novecento piuttosto raro e che rappresenta, prima nel cinema poi nella società borghese, un’immagine di donna emancipata dal ruolo subalterno all’uomo, con una sua indipendenza professionale ed economica. È un capo che ha resistito nel tempo, se ancora oggi l’immagine della ‘donna in carriera’ è sempre legata al tailleur.
Il secondo è una selezione di reggiseni datati dagli anni Trenta agli anni Cinquanta: un capo che oggi è considerato normale nell’abbigliamento femminile ma che costituisce invece una liberazione straordinaria del corpo anche se purtroppo, nel tempo, ha determinato la forma “accettata” del seno, nella taglia e nella forma: il reggiseno a proiettile, usato dalle dive del cinema degli anni ’50-’60, da Marylin a Sophia Loren, rimane nell’immaginario.
Infine non può mancare la minigonna: non sono tanto i capi in mostra che voglio mettere in evidenza, quanto le fotografie che le accompagnano, perché è forse il primo capo che dalla strada arriva alla moda. Accanto a Mary Quant e Twiggy infatti, si trovano le fotografie delle creazioni carpigiane degli anni Sessanta, dove le modelle erano spesso le operaie delle fabbriche. Il primo vero capo “democratico”, alla portata di tutte, e non a caso ha caratterizzato il Sessantotto».
La mostra è affiancata da un progetto espositivo a cura di Fondazione Fashion Research Italy. Come si è svolto?
«Il rapporto con FRI nasce con l’obiettivo di far conoscere e valorizzare lo straordinario archivio della Fondazione, che da mesi si sta occupando di sostenibilità ambientale. Questo tema si è sviluppato in mostra in una sezione che presenta una selezione di tessuti e disegni che rimandano in particolare all’utilizzo delle risorse del pianeta. Col FRI la mostra ha aperto lo sguardo verso le sfide che la moda sta affrontando nel presente e che determineranno ciò che accadrà nei prossimi anni».