Vilhelm Hammershøi, Doppio ritratto dell’artista e della moglie visti attraverso uno specchio, 1911. Collezione privata
Prima di ora, nella riscoperta a livello internazionale di Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864-1916), mancava una retrospettiva italiana che ponesse nel giusto risalto la sua figura. Oggi invece la mostra Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia a Palazzo Roverella– prodotta da Dario Cimorelli Editore, a cura di Paolo Bolpagni e promossa da Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, in collaborazione con il Comune di Rovigo e l’Accademia dei Concordi, con il sostegno di Intesa Sanpaolo – colma questa lacuna, fornendo un’occasione per conoscere più da vicino le opere del pittore straordinario e anche scandagliando filoni di ricerca rimasti finora pressoché inesplorati.
«La mostra di Palazzo Roverella non si propone semplicemente di offrire al pubblico del Bel Paese un’occasione per conoscere più da vicino le opere di un pittore straordinario, riconoscibile per l’intimismo minimalista dei suoi interni e per l’atmosfera inquieta che si sprigiona da un apparente rigorismo, ma di scandagliare filoni di ricerca rimasti finora pressoché inesplorati: da una parte il rapporto tra Hammershøi e l’Italia, dall’altra il confronto con artisti europei soprattutto coevi che, con sfumature diverse, praticarono una poetica basata sui temi del silenzio, della solitudine, delle ‘città morte’, dei ‘paesaggi dell’anima’. I francesi Émile-René Ménard, Henri Duhem, Lucien Lévy-Dhurmer, Charles-Marie Dulac, Henri-Eugène Le Sidaner, Charles Lacoste e Alphonse Osbert, i belgi Fernand Khnopff, Georges Le Brun, Xavier Mellery, Charles Mertens e William Degouve de Nuncques, gli olandesi Jozef Israëls, Johan Hendrik Weissenbruch, Jan Jacob Schenkel e Bernard Blommers, lo svizzero Eugène Grasset, la svedese Tyra Kleen, i danesi Peter Vilhelm Ilsted, Carl Holsøe e Svend Hammershøi. E, beninteso, gli italiani: Umberto Prencipe, Giuseppe Ar, Oscar Ghiglia, Vittore Grubicy de Dragon, Mario de Maria, Giulio Aristide Sartorio, Vittorio Grassi, Orazio Amato, Umberto Moggioli, Domenico Baccarini, Giuseppe Ugonia, Francesco Vitalini, Mario Reviglione, Pio Bottoni, Enrico Coleman, Napoleone Parisani, Raoul Dal Molin Ferenzona e Onorato Carlandi», afferma Bolpagni.
Allievo prima di Niels Christian Kierkegaard e Holger Grønvold, poi di Frederik Vermehren alla Kongelige Danske Kunstakademi, e infine di Peder Severin Krøyer, Vilhelm Hammershøi (Copenaghen, 1864-1916) debuttò nel 1885 e, come sottolinea il curatore, «viaggiò varie volte nella Penisola, visitò Roma, collezionò cartoline con vedute di città, e soprattutto rifletté sull’antichità classica e guardò ai cosiddetti Primitivi e agli artisti del nostro Quattrocento: Giotto, Beato Angelico, Masolino, Masaccio, Luca Signorelli, Desiderio da Settignano. Benché abbia dipinto una sola opera di soggetto italiano (che sarà in mostra), durante le proprie permanenze esercitò un’attenzione estrema e recepì spunti e insegnamenti, che contribuirono a delineare il suo personalissimo linguaggio. Non bisogna del resto ignorare il ruolo che il canonico soggiorno a Roma rivestiva tradizionalmente nella formazione dei giovani artisti danesi».
Per l’occasione della mostra a Rovigo sono giunte un nucleo fondamentale di opere che danno forma a un percorso in cui, dopo un breve affondo sui precedenti storici del tema degli interni silenti, approfondisce i tre ambiti portanti della ricerca dell’artista: gli interni, spesso privi di presenze umane, i ritratti e le vedute architettoniche. Come suggerisce anche il titolo, l’esposizione lascia spazio anche a un approfondimento inedito, ovvero il rapporto di Hammershøi con l’Italia: «dalle ricadute iconografiche (per esempio con la sua raffigurazione della basilica di Santo Stefano Rotondo al Celio, visitata nella capitale) alla presenza di lavori dell’artista in mostre dell’epoca, per concentrarsi in special modo sugli accostamenti e confronti con la poetica e i soggetti di pittori italiani, anche con l’indagine dell’impatto che la visione diretta o la conoscenza in riproduzione di opere di Hammershøi esercitò fino agli anni quaranta del Novecento», spiega il curatore. Ma anche il rapporto degli italiani con l’artista: non pochi pittori italiani di differenti provenienze geografiche, sia a lui contemporanei, sia della generazione successiva, infatti, furono suggestionati dalla visione o dalla conoscenza delle sue opere. Bolpagni fa notare anche che alcuni critici, nella Penisola, si interessarono piuttosto precocemente al suo lavoro: Vittorio Pica, Giuseppe Antonelli, Emilio Cecchi, e riviste importanti come ‘Il Marzocco’ ed ‘Emporium’ gli dedicarono articoli».
Parimenti interessante e originale è il confronto di carattere tematico e stilistico tra la produzione di Hammershøi e i dipinti di artisti scandinavi, francesi, belgi, svizzeri e olandesi, per evidenziare affinità e differenze, insieme anche a un omaggio a Hammershøi da parte di uno dei più interessanti fotografi contemporanei, lo spagnolo Andrés Gallego.
Hammershøi e i pittori del silenzio tra il Nord Europa e l’Italia, che è accompagnata da un catalogo edito da Dario Cimorelli Editore con saggi originali del curatore Paolo Bolpagni e di Claudia Cieri Via, Luca Esposito, Francesco Parisi e Annette Rosenvold Hvidt, offre dunque molti spunti di ricerca su cui far luce «anche sulla base di indagini documentarie che svelino aspetti inediti, e di riflessioni critiche che approfondiscano filoni meritevoli d’interesse, dal topos della figura ritratta di spalle al motivo degli interni silenziosi e dei paesaggi privi di presenze umane, dall’esistenza appartata di Hammershøi alla cosiddetta ‘povertà’ cromatica dei suoi dipinti», conclude Paolo Bolpagni.
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