Le premesse con cui si apre il secondo atto della mostra HM, HE, HA (del primo ne avevamo parlato qui) sono quelle di un dialogo che si vuole non solo sincronico tra le opere di Luca Bertolo e Manuele Cerutti, ma altrettanto lanciato diacronicamente indietro attraverso reminiscenze tematiche e curatoriali. Si tratta di un percorso fisico e mentale di comprensione della poetica degli artisti, verso una contemplazione estetica silenziosa e priva delle categorie imposte dalla parola lasciando spazio, piuttosto, a esitazione, incertezza e sorpresa.
Citando Davide Ferri, questa mostra tenta, «in un momento di profonda, straripante proliferazione della pittura figurativa», di ridurre «l’assertività della figurazione» distaccandosi da una narrazione affermativa e rivolgendosi ad una nuova osservazione della figura oltre il velo della sua apparenza. Ecco allora l’artificio, la costruzione, la ripetizione di singoli gesti, di singole macchie di colore su una superficie piatta e lo sfondamento del traum, il sogno, che, a seguito di un momento di sospensione di giudizio, lascia spazio a un processo alternativo di scoperta della pittura.
In uno schema di rimandi e di contrasti, i due artisti mettono in scena una riconsiderazione del soggetto attraverso un diverso orientamento dello sguardo e ciò è da subito comprensibile. Al primo piano del torrione, come già era stato nel primo atto della mostra, gli occhi sono portati verso il basso, verso la terra; quella magmatica, materica e proliferante di vita che il soldato di Luca Bertolo sembra osservare negando la possibilità di identificarlo pur essendo questo soggetto di un ritratto. Laddove, invece, la figura è leggibile, come nella Natura morta con melograno, l’artista sembra voler sfidare la storia del genere piegandolo alla sua personale poetica fondata sulla matericità della pittura, che è il vero soggetto della tela. Manuele Cerutti, dal canto suo, opera questa riconsiderazione della pittura figurativa conferendo a elementi inanimati, minimi e liminali la dignità di protagonisti delle sue descrizioni realiste. Tali oggetti, infatti, sono sviluppati nella pratica dell’artista conferendo loro la stessa complessità caratteriale e atmosferica che definisce la ritrattistica.
Al secondo piano, la traiettoria dello sguardo è proiettata idealmente in senso orizzontale con il reciproco studio di poetica e di tecnica condotto dai due artisti. È necessario qui riservarsi qualche momento per osservare il brano pittorico di fine e delicata poesia realizzato da Cerutti: un instabile brandello di cartoncino bianco, uno scarto della produzione sul quale scaricare il pennello o condurre prove di colore, acquisisce in questa sede una particolare sfumatura di significato qualificando il dipinto come metafora visiva del ritratto del collega, evocato attraverso il ricorso all’elemento informale – o, meglio, pre-formale e in potenza – della macchia. La confusione – dal latino cum fundĕre, mescolare insieme indistintamente – che si viene a creare a questo livello del torrione restituisce il vicendevole interesse esistente tra i due pittori.
In questo cammino di decostruzione e ridefinizione della pittura figurativa emerge lo straniamento di fronte a una pittura che si autodenuncia e che, allo stesso tempo, si dichiara autosufficiente. Al quarto piano, la Veronica 18#05 di Bertolo, raffigurante un telo bianco traslucido sospeso di fronte ad un fondale coperto di macchie policrome, si presenta quale portatrice tanto delle potenzialità della rappresentazione figurativa, quanto della sua natura materica non omogenea rispetto alla finalità narrativa. Ancora di Bertolo, Abstract Painting #3 sembra nascondere, attraverso la rappresentazione a tromp l’œil del verso di una tela, il vero soggetto del dipinto lungo il limes che distingue le due superfici estreme dell’oggetto quadro e che, tuttavia, esiste solo nella dimensione virtuale della pittura. Poco oltre, a corroborare tale ragionamento attorno alla risignificazione della pittura, si ripresenta la descrizione metaforica di Cerutti: Il sospetto (VIII), limpida rappresentazione di una tela mantenuta in un precario equilibrio da un piccolo legnetto, costituisce la resa figurativa di quella funzione illusionistica che è propria della pittura stessa.
Raggiungendo infine l’osservatorio, il dialogo si apre al confronto. Se Cerutti volge l’attenzione dagli oggetti al corpo, concedendo una possibilità di racconto, questo rimane tuttavia sospeso in un limbo tra natura viva e natura morta confermando l’ambiguità di un genere pittorico indefinibile attraverso la frammentazione della figura umana. In Bertolo, invece, appare la scrittura, la quale oscilla tra la sfrontata affermazione della parola e la sua sottrazione attraverso quello stesso diaframma traslucido che, come nella Veronica, impedisce l’esattezza della trasmissione del messaggio. La mostra si chiude nella torretta con un’opera sonora di Bertolo che restituisce una poesia di Luigi Meneghello letta dallo scultore Fabrizio Prevedello. Il componimento si avvale di quelli che, ad un orecchio estraneo, sembrano suoni disarticolati, forse riconducibili alla sperimentazione della poesia sonora. Si tratta invero di una serie di parole monosillabiche che animano il ricco dialetto veneto e che, pur nella loro apparente vacuità e inconsistenza materica, sono cariche di significato.
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