HM, HE, HA è un progetto espositivo in due atti ideato da Elena Volpato e Davide Ferri che vede protagoniste alcune recenti opere di Pesce Khete, Michele Tocca, Luca Bertolo e Manuele Cerutti accomunate non tanto da un tema o da un certo fare pittorico, quanto piuttosto da una predisposizione a soffermarsi sul valore della riflessione e dell’indugio.
Il percorso espositivo prende avvio dai quattro autoritratti degli artisti coinvolti nel progetto. Si tratta in tre casi di autoritratti per interposta persona. Pesce Khete sceglie di presentare una donna primitiva, Michele Tocca affida per procura la sua immagine ad André Derain, esponente del gruppo dei Fauves particolarmente attratto dal primitivismo, mentre Manuele Cerutti sceglie una testa di centauro, simbolo per eccellenza della contraddizione tesa tra la piena riflessione teoretica e la bestialità. Di Luca Bertolo, d’altra parte, troviamo un effettivo autoritratto, caratterizzato però anch’esso da una natura primitiva ottenuta attraverso quello che i curatori definiscono un “meccanismo di auto-inciampo”, ovverosia la scelta di non guardare ciò che la mano va tracciando. Così facendo, Luca Bertolo mette in atto un processo di cancellazione della tradizione pittorica riportandola ad un grado zero, allo stadio del segno quale archetipo di rappresentazione senza parole e senza codici. Si tratta, come dichiarato da Elena Volpato nel discorso di apertura, di “un gioco di modi differenti di essere primitivi a diversi livelli”.
Questa prima parte della mostra in due tempi, in cui sono ora esposte le opere di Pesce Khete e Michele Tocca, inizia a tutti gli effetti con il livello 1, dove una serie di lavori accolgono lo spettatore ingaggiando con esso e con lo spazio, attraverso registri coloristici differenti, un dialogo attorno alla dimensione materiale e materica, a tratti terrosa. Qui infatti trovano posto opere come scarpe sporche o Fango (gelata) di Michele Tocca intervallate da uno dei molteplici Untitled di Pesce Khete, la cui componente segnica rimanda all’esperienza dell’art brut.
Questo livello e il successivo intrecciano le loro trame grazie alla presenza di un ballatoio che permette dunque la visione simultanea delle opere lì presenti. La scena del secondo livello è dominata dal grande Untitled, 2023 di Pesce Khete, il quale si estende orizzontalmente lungo buona parte della parete che accoglie lo spettatore in salita. Il sapiente bilanciamento di colore e monocromia, concitamento e pulizia dell’immagine, paesaggio e ritratto è sottolineata dalla caratteristica scelta dell’artista di ricorrere al nastro adesivo quale limes oltre cui si sviluppa e si estende lo spazio della ragione attraverso l’aggiunta di fogli di carta, in assoluto il supporto prediletto da Pesce Khete.
Il terzo livello, nel quale per la prima volta durante l’ascesa il laterizio del torrione si apre sul panorama vicentino, pone in essere un discorso attorno alla pittura quale tradizionale finestra illusionistica sul reale. Qui, infatti, lo spazio ha la possibilità di estendersi oltre La finestra condominiale di Michele Tocca, che è composta da nove tele quadrate della stessa dimensione caratterizzate da molteplici tonalità di un profondo blu, a tratti limpido, a tratti appannato, incorniciato da un profilo nero. Disposte a formare un quadrato più grande, le tele danno vita ad uno schermo che separa e unisce, protegge e svela quanto si trova al di là. La finestra dà l’impressione di essere sempre sul punto di accendersi per raccontare attimi di vita quotidiana che si svolgono oltre questo lucido repoussoir, il quale resta tuttavia muto. Se l’opera di Tocca si concentra sull’immediatezza del reale, il controcanto di Pesce Khete sembra configurarsi come una dichiarazione d’intenti: entro il profilo del supporto (una virtuale apertura) l’artista concepisce, crea, dà vita a nuovi spazi, nuove realtà, nuove visioni che evadono dal mondo reale verso una dimensione in cui è possibile sperimentare, divertirsi e anche liberarsi dalla razionalità. L’opera infatti presenta ben distinguibili tubetti di colore e riquadri che rimandano al tradizionale concetto di quadro come finestra visiva.
Il quarto livello si sporge virtualmente oltre la finestra per espandersi nella linea lunga del paesaggio che si mostra ora incommensurabile e sublime, ora invece celato e intrigante, oggetto d’indagine e curiosità in cui il tempo scorre secondo ritmi diversi, lontano dal vociare cittadino. La pittura si stende sul supporto senza tuttavia considerarne le dimensioni risultando così in un taglio fotografico. In queto livello è presente un’opera di Pesce Khete che, oltre a dialogare perfettamente con l’adiacente Pioggia bassa del collega, porta traccia del legame di amicizia esistente tra i due. Untitled (Michele) è infatti un’opera in cui il gesto di Pesce Khete molto si avvicina al ductus materico di Michele Tocca di cui va anche ad adottare lo sguardo, il metodo d’osservazione quasi scientifica dei fenomeni.
L’ampio respiro di questi dipinti di paesaggio si pone come preludio del quinto livello, il quale lascia entrare la città di Vicenza nell’ambiente ora luminoso dell’osservatorio. Le opere qui esposte, a differenza delle precedenti, sono state concepite appositamente per questa mostra e nascono dunque con l’intento di non dire, di non affermare. Si tratta di opere della serie dei Siliconi, per Pesce Khete, e di quella intitolata In one coat, prodotta da Michele Tocca. Nel primo caso ci troviamo di fronte a quattro tele colorate su cui l’artista ha steso – in maniera solo apparentemente casuale – del silicone, un materiale colloso normalmente utilizzato per far aderire il retro di un pannello al supporto. Qui però non c’è traccia dell’immagine o del testo di cui il pannello è portatore: esso è stato rimosso, strappato, lasciando spazio solo al silenzio. L’immagine, la parola, entrambe regrediscono dalla rappresentazione sensibile verso la dimensione di segno e di balbettio; si riappropriano della facoltà di non significare, di non comunicare.
Alternate a queste rappresentazioni volutamente mancate si trovano altri silenzi pittorici, silenzi metaforici in questo caso. La serie, iniziata diversi anni addietro, in cui è rappresentata la giacca da pioggia di Michele Tocca veicola l’idea un momento di riappacificazione al termine della sessione di pittura. Quest’indumento, appeso alla porta azzurrina della casa del pittore in maniera sempre differente, ora perché bagnato, ora perché appesantito da qualche oggetto all’interno della tasca, si configura però anche come una specie di autoritratto. L’artista riconosce nella giacca un’epidermide che assorbe, che è impregnata di paesaggio e tramite questa è possibile mostrare pur senza rappresentare, in absentia e in silenzio.
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