Museion si trasforma in un luogo di produzione di meraviglia, dove scienza e finzione si fondono: come in un’astronave, in un portale verso un’altra dimensione, in uno spazio privato in cui viaggiare nel tempo e diventare alieni, HOPE si propone di riattivare la speranza e di affermarla come pratica artistica attiva. «Si ha bisogno del cannocchiale più potente, quello della coscienza utopica levigata», scriveva Ernst Bloch nella prefazione di Das Prinzip Hoffnung (Il Principio speranza). «Open your hearts, navigate and metabolize (Aprite i vostri cuori, navigate e metabolizzate)», è il messaggio condiviso dai curatori Bart van Der Heide e Leonie Radine, in collaborazione con DeForrest Brown, Jr., in occasione dell’apertura della mostra (inaugurata con BAW23 e visitabile fino al 25 febbraio), che conclude la trilogia TECHNO HUMANITIES con un programma di reimmaginazione urbana rivolta al futuro.
Come si manifesta la speranza quando il futuro è cancellato?
Due stelle di Petrit Halilaj, del progetto When the sun goes away we paint the sky avviato a Pristina nel 2022 per Manifesta 14, brillano sull’ingresso del museo tracciando nuove linee spazio-temporali e incorniciando la monumentale e luminosa insegna di Riccardo Previdi, OPEN. Universalmente comprensibile, l’installazione si pone come slogan, anche provocatorio, marcatore di un’idea di apertura, di superamento e di portale verso un’altra dimensione: quella, poetica, della speranza tanto unificante quanto critica, condivisa con Halilaj.
Mentre il personale di sorveglianza indossa un Apple Watch, per il quale è pensato Struggle for Life © di Irene Fenara, prendendo l’ascensore, all’interno della quale è riadattata per lo spazio l’installazione sonora AUI OI (su e giù, in sudtiroletse) di Ulrike Bernard e Caroline Profanter, possiamo intraprendere il primo viaggio attraverso lo spazio e il tempo di HOPE e raggiungere l’ultimo piano. Il percorso espositivo, come suggeriscono i curatori, muove infatti dall’alto, pensato come un osservatorio, una piattaforma panoramica, in cui sono riuniti simboli e strumenti imprescindibili nella comprensione del sé e dell’altro, con particolare attenzione allo straniero. Sophia Al-Maria recupera per esempio la ben nota, e dibatutta, lacaniana fase dello specchio della conoscenza di sé con riprese di giovani persone ancora in procinto di sviluppare e affinare il senso dell’io e del noi nel video Tender Point Ruin; mentre The Photographer Lens di Beatrice Marchi – che si richiama al libro di Susan Sontag, Sulla Fotografia – sembra chiederci quanto debba essere lungo il cannocchiale della coscienza utopica per penetrare l’oscurità.
Ei Arakawa traduce invece in mappe astrologiche date e orari di alcune rappresentazioni per descrivere la personalità della performance rispetto al cosmo. Simili a costellazioni e situate in un tempo alternativo, come capsule spazio-temporali le Performance People sono utili a individuare nuove strutture di produzione del sapere e della memoria. Sono capsule spazio-temporali, seppur formalmente diverse, anche i calchi di valigie in alluminio di Andrei Koschmieder (Untitled, 2019), privi di ruote e maniglie, immobili e usurati, pronti a indicare strade alternative verso il futuro. A proposito di futuro, l’alterego di Suzanne Treister, Rosalind Brodky’s Electronic Time Travelling Costume – nelle versioni to go to London in the 1960s (1997), to rescue her Grandparents from the Holocaust (1996-97) e to go to the Russian Revolution (1995) – avanza proposte tecnovisionarie, non colonialistiche e spirituali per sopravvivere sulla Terra e abitare il cosmo. Treister, che nel 1995 creò una piattaforma su CD-ROM per incontrare Rosalind Brodsky, con cui condivide radici anglo-esteuropee ed ebraiche, riflette da decenni in materia di ripercussioni delle nuove tecnologie sulla convivenza planetaria, oltre che sulla società e sulla memoria, e in occasione di HOPE sceglie di far dialogare i suoi costumi con una serie di dipinti su tela in cui immagina futuri musei di estasi cosmiche e telepatie meccaniche.
Sulla vocazione e sulla sostenibilità dei musei, come sulla sopravvivenza e sulla conservazione della memoria solleva questioni anche Bojan Šarčevič, rappresentando nella forma di un congelatore (Sentimentality is the Core) – all’interno del quale è stato coltivato un paesaggio di cristalli e sono stati inseriti altoparlanti trasduttori che, servendosi di particelle fisse o liquide, trasmettono canzoni pop degli anni ’80 – la speranza, anche museale, di tenere in vita visioni di futuri perduti. Sullo stesso piano sono esposte anche opere di Black Quantum Futurism, Sonia Leimer, Marina Sula, Shūsaku Arakawa e Trisha Baga, con una serie di dipinti – macchine del tempo in cui micro e macrocosmi si combinano – tra cui Time Machine, in cui lo schermo del suo pc diventa finestra sul mondo in cui si riflette il proprio spazio di vita.
Completano infine l’interpretazione artistica di simboli e strumenti della comprensione del sé le immagini del corpo di Michael Fliri, rese attraverso un’estetica post-umana che rimanda alle radiografie e realizzate manualmente con calchi in vetro di parti del corpo; Coat for reaching the Heaven di Ana Lupas, fragile e delicata e insieme resistente e trasformabile al pari di una vera esistenza, e Sun & Moon Giant Pénétrables di Nicola L. Come l’opera di Lupas, anche le silhouette di sole e luna sono pensate per essere indossate, consentendo al corpo umano di calarsi nei corpi celesti e di osservare la Terra eludendo i confini identitari, corporei e di genere fra sé e il mondo.
Attraversando l’osservatorio, scendiamo al terzo piano accedendo ai mondi immersivi di Arcade – con chiaro, e duplice, riferimento sia al mondo del gaming che all’antico mito di Arcadia. Gli artisti, tra cui Lawrence Lek, Ilaria Vinci, Shu Lea Cheng, e Tony Cokes, creano digitalmente, o traducono in scenari digitali, differenti proposte di costruzione del sé e di altri mondi. Neïl Beloufa costruisce mondi a cavallo tra scienza e finzione in una serie di immagini in rilievo, in MFD, ricoperte da campi di colore in cuoio sintetico, in cui figure pittoricamente astratte sono alle prese, nel quotidiano, con smartphone e tablet. Maggie Lee, con la pratica del collage applicato a differenti media, porta in HOPE l’emozionalità: tra acrilici, tessuti e cartoni, il video Heart Mission è uno sguardo su New York attraverso lenti rosa e filtri a cuore oleografici. Lu Yang indaga invece forme di rinascita attraverso tecnologie digitali, a proposito delle quali si chiede se possano conferire facoltà divine agli esseri umani. L’installazione video a cinque canali Electromagnetics Brainology, richiamandosi in termini di contenuti alle dottrine buddiste e induiste, arma i quattro fondamentali fondamentali (aria, terra, fuoco e acqua) di rimedi per alleviare le sofferenze universali.
Al secondo piano, Third Earth Archive, DeForrest Brown, Jr. riunisce in un archivio costruito su linee temporali alternative immagini e sonorità attorno al mito afrofuturista del regno sottomarino Drexciya, una mitologia di self empowerment o black exodus Technology che mira a scardinare il potere coloniale. Artefatti e rimandi alle ricerche sulla storia della musica techno (trasposizioni del libro di Brown Assembling a Black Counter Culture) assumono una connotazione storiografica di creazione del mondo sconosciuta al canone occidentale e per la prima volta esperibile grazie alla collezione di dischi di Dj Velocipez/Walter Garber e al dialogo tra Brown e AbuQadim Haqq, che disegna sulle copertine degli album techno di Detroit e nelle sue graphic novel i mondi che ruotano attorno al mito di Drexciya.
Torniamo al piano terra, Passage, che segue la logica del tunnel spazio-temporale della mostra. Linda Jasmin Mayer opera nel regno dell’alienazione sociale e dell’interazione tra essere umano e natura, alla ricerca di un nuovo senso di appartenenza e di legame (Dove fermarsi?), mentre ALMARE, utilizzando il suono come mezzo espressivo e l’ascolto come strumento di lettura delle dinamiche sociali, presenta tre episodi dell’audio-racconto Life Chronicles Of Dorothea Ïesj S.P.U., in cui – prendendo spunto dall’archeoacustica – Dorothea Ïesj estrae e rivende suoni dal passato. Il percorso si conclude con la grande instalalzione Sediments, Sentiments (Figures of Speech) di Allora&Calzadilla, che traspone in musica lirica frammenti di discorsi declamati da figure come Saddam Hussein, George W. Bush, Dalai Lama e Martin Luther King; e la consolle dal design retro-futuristico, Jukebox II, di Tacita Dean: un caleidoscopio temporale di suoni (192 cd con i suoni registrati dagli spazi pubblici esterni di Ubatuba, New Orleans, Hoonah, Naselesele, Akashi, Dhaka, Aden e Greenwich) che è al contempo spazio acustico di immaginazione e capsula del tempo.
Just passing through. Il viaggio attraverso HOPE si conclude, Museion offre una sorprendete forza generativa per fare la storia e scrivere storie. A noi, che forse ci siamo chiesti e ci chiederemo da dove veniamo e dove vogliamo andare una possibilità è data: reincantare il mondo.
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