Jorge Luis Borges, Adolfo Bioy Casares, Julio Cortàzar, Oscar Masotta, Jacques Lacan…sono molteplici ed eterogenei i riferimenti letterari e filosofici convergenti nel progetto performativo “Conosco un labirinto che è una linea retta” presentato al Mattatoio di Roma dall’artista spagnola Dora García (Valladolid, 1965). Si tratta del quarto appuntamento con la rassegna “Dispositivi sensibili” – curata da Angel Moya García – dedicata alle pratiche performative contemporanee ed al loro linguaggio polisemico, articolato tra contaminazioni diacroniche e audaci intrecci multidisciplinari. Raggiunto agilmente il rione Testaccio, valichiamo, nella precoce oscurità ottobrina, i cancelli della singolare sede espositiva che – ne siamo certi – avrebbe stuzzicato l’immaginario gauchesco di Borges.
La mostra occupa i due ampi padiglioni che giganteggiano ai lati dell’ingresso. Infiliamo d’acchito quello di destra per assistere al cortometraggio Segunda Vez– una frammentata ibridazione di politica, psicanalisi e performance art – dedicato all’argentino Oscar Masotta (Buenos Aires, 1930 – Barcellona, 1979), figura di intellettuale poliforme, teorico della Pop Art e dell’happening, cultore e divulgatore della psicanalisi lacaniana nel mondo ispanico, e che provocatoriamente definiva se stesso esistenzialista, marxista e peronista. Nel padiglione prospiciente animato da alcune performance che si svolgono in contemporanea, incontriamo Dora García intenta a osservare con attenzione gli attori impegnati nella messa in scena di una delle sue ideazioni. Nel breve dialogo intercorso ci ha confermato l’importanza del testo letterario come base per l’abbrivio creativo e, segnatamente, della scrittura lacaniana che, in questo progetto romano, gioca un ruolo di primo piano. Certo, l’effetto è davvero spaesante.
Le performance si svolgono, simultaneamente, in uno spazio astratto, geometrizzato per l’occasione da linee rette e da perimetri circolari, e a tratti sembrano voler compenetrarsi, come ad assecondare il ritmo di una spirale immaginaria; mentre il pubblico si mescola agli attori che ora lo rendono, suo malgrado, protagonista della effimera scena con l’ausilio di partiture eccentriche, ora lo destinano al consueto ruolo di spettatore passivo. Topos ricorrente, la lettura di un libro in scena – ad alta voce ovvero in silente solitudine – a denunciare insieme la matrice propulsiva dell’evento e quella misterica contiguità tra reale e immaginario, sorgente inesausta del fare arte. Ad acuire il nostro malcelato smarrimento ci sovviene una riflessione esegetica di Massimo Recalcati sull’estetica lacaniana, per cui l’arte sarebbe una pratica simbolica (cioè convenzionale) finalizzata a tenere a bada l’ingovernabilità perturbante del reale. L’arte, secondo Lacan-Nietzsche, tenterebbe di strutturare quel vuoto abissale, quel caos dionisiaco che il dato reale dissimula.
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