TAKI183
Questo è un indizio originario, un nucleo segnico ritrovato per la prima volta al capolinea del bus 179 sulla strada per Broadway. Taki sta per Demetraki, 183 sta per 183rd Street a Washington Heights, Nord Manhattan. È la celebre tag del tagger/writer Demetrios, un greco-americano a cui il New York Times dedicò, nel 1972, un articolo intitolato “Taki 183 Spawns Pen Pals”.
Se fu alquanto singolare poter risalire all’autore, al luogo e alla storia di uno dei primi e più presenti graffiti nel downtown newyorkese, diffusissima era invece la pratica di segnare con lo spray angoli e muri di strade, pareti di metropolitane, impianti sportivi, edifici e monumenti: Joe 136, BARBARA 62, EEL 159, YANK 135, LEO 136 e tanti altri, considerati segni di degrado e abbandono ma che, in realtà, avevano in serbo ben altri risvolti. Non solo una netta espressione di affermazione personale nelle enormi e sempre più anonime metropoli nordamericane ma l’avvio simbolico di quella futura rivolta individualista che, nata in quegli anni, troverà piena espressione negli ’80, travolgendo classi sociali, culture politiche, ideologie, partiti, tutto.
Ma quel segno sarà anche la spia di un fenomeno sempre più grande, quello dei writing/graffiti, della street art, di una pittura parietale contemporanea che, nel tempo, avrebbe avuto sempre più peso, più voce nel dibattito odierno e diffusione capillare, capace di modificare costantemente la percezione e la consapevolezza di chi guardava allora e osserva oggi, spesso inebriato o inorridito, mai indifferente.
Da un lato un pubblico «Istantaneo», «Che si sfarina», come ripete Achille Bonito Oliva, il quale coglie nella street art un «Linguaggio esaltante», un «Inciampo visivo», che buca la distrazione dei nostri pensieri e dei nostri sguardi, spesso assenti, logistici. Dall’altro una prassi che si è fatta strada tra le manifestazioni di altre soggettività sociali, politiche, commerciali (dalle antiche iconografie di leader e dittatori ai murales delimitano territori di identità, ideologie, fino all’ occupazione “militare” della cartellonistica commerciale e politica) e che, per forza di cose, ne ha assunto e riassunto doti, tecniche e obiettivi. Esserci, catturarci, prenderci.
La dimensione del visivo è così messa sotto pressione, è bombardata, è occupata dalla grandezza, dalla ripetizione, dalla forma ossessiva, dal colore vivo e intrusivo, dalla velocità di una battuta in stile stand up comedy o di una strofa in stile hip hop battle. Proprio questi sono gli ingredienti vincenti della mostra “IABO 20th. Mostra Antologica 2003/2023. Street art/Dipinti/Installazioni/Video”, dell’artista napoletano Iabo, che ha deciso di mettere un primo punto alla propria carriera ventennale spesa tra Europa, Asia e America (Affordable Art Fair – Amsterdam, Saatchi Gallery – Londra, Aromory show, Volta Pulse, Contempop Gallery – New York, Artour-o – Shanghai) e l’amata Napoli (NOTgallery, Luminaria 03, Fondazione SDN, Brin69, The silk road). Una esposizione articolata e narrativa, promossa da DADART e dalla Fondazione Silvia Ruotolo Onlus, a cura di Annalisa Ferraro, in collaborazione con INWARD, con il patrocinio del Comune di Napoli e il supporto di EAV.
La mostra, che impegna le sette sale al secondo piano dello splendido PAN – Palazzo delle Arti di Napoli, più che allestita sembra impiantata, come installata in connessione con le pareti e con gli spazi che riorganizza non, come ci aspetterebbe, sotto forma di street art quanto di una realtà aumentata da linee, colori, text e spazi perimetrali. Hitler Blue, Robo Coop in rosso, Banksy incorniciato da spot paiting di Damien Hirst, un dissing tra Basquiat e Banksy, l’amore tra Batman e Robin, i Superheros americani. Personaggi iconici riconoscibili da pochi tratti, attraverso cui si miscelano culture pop, televisive, musicali e che sottolineano uno spostamento, un elemento proiettivo dei suoi lavori ai limiti del 3D, di una nettezza lineare, geometrica e cromatica che procede oltre le suggestioni del graffiti/writing e della stessa street di cui l’artista è debitore.
E se le texture di lavori come “Assembra(m)enti” (2020) o “Siamo tutti Supereroi” (2010) connotano anche un potenziale espressivo ulteriore, futuribile, è il profilo cubiforme del volto, marchio di fabbrica dell’artista napoletano, a tenere banco. Più che giocare sulla riproposizione ossessiva della segno, della firma del tagger, Iabo agisce sulla riproduzione seriale, su una catena di montaggio creativa, assicurata per i neofiti da “Do it yourself urban experience”, un divertente set acquistabile di spray, stencil e tela su cui autoprodurre il proprio Iabo.
La scia di Andy Warhol, altro grande maestro e ispiratore di Iabo, è vistosa e volutamente citata. D’altronde, dopo le migrazioni sperimentali dal muro alla tela operate dai protagonisti della United Graffiti Artist e Fashion Moda alla fine degli anni ’70, la ditta Warhol-Hering-Basquiat aveva già dato prova, con la grandi passerelle del The Times Square Show (1980) o del New York/New Wave (1981) del potenziale non solo artistico ma soprattutto commerciale e mediatico della street art, fin dalle sue origini.
Una visione che Banksy, il dark knight che imperversa nelle Gotham di tutto il mondo ha tentato di azzerare, riportando il mestiere dello street artist nell’alveo del justice murale, con la denuncia graffiante al consumismo, al capitalismo, al potere sordo e tracotante degli stati nazionali. Ma finendo, paradossalmente, per produrre un’arte raccontata da storie e personaggi (soldati, bobbies, bambini, animali, casseur, colf, comics) diffusisi a livello planetario perché totalmente instagrammabili, riproducibili su ogni superfice, taggabili per ogni momento e situazione. E questo nonostante i propri proclami («La chiave dei graffiti? L’ubicazione») e celebri adagi («Il muro invoca la scrittura», Roland Barthes).
Cosi Iabo, che supera questi caveat, intuendo una sorta di multidimension della propria arte, pone i propri lavori in un punto di disgiunzione tra tela, parete, tag, stampa, forex, neon, cartellonistica, schermo, videogame. E così da «Fenomeno di ripiego, simile alla moda dei blue jeans cowboy style in Italia» – sempre Achille Bonito Oliva -, la street art, pur decontestualizzata da downtown e fenomeni sociali e politici di rilievo, può liberare il proprio potenziale espressivo, godere della propria libertà da canoni e circuiti chiusi, dirsi arte veramente orizzontale e universale.
Da qui l’idea di una mostra totalmente gratuita, soprattutto per i ragazzi, e animata da laboratori e momenti formativi dedicati a studenti e giovani dell’area penale minorile (grazie alla collaborazione con Fondazione Silvia Ruotolo Onlus) per fornire «Strumenti culturali adatti a incoraggiare una crescita sana e ricca di opportunità per i giovani», come sottolinea Alessandra Clemente, presidente della Fondazione Silvia Ruotolo Onlus. Ne è convinta la consigliera del Comune di Napoli, proprio l’arte di Iabo e in generale la street art possono essere vettori decisivi per affrontare con i più giovani tematiche importanti, come politica, attualità, diritti, e per avvicinare i ragazzi a luoghi della cultura e dell’arte contemporanea, come il PAN.
Una disciplina, quella della street art, che dunque accetta la musealizzazione, a patto di poter “esplodere” tra le pareti, di potersi reinventare e riciclare nelle forme, idee e negli obiettivi, coinvolgendo il maggior numero di persone e appassionati. Anche di stravolgere la forma originale, di ricreare totalmente la propria idea, di essere citati, copiati, derubati. D’altronde il coraggio non manca agli street artist. È l’unica arte che accetta il giudizio totale del pubblico, anche di essere vandalizzata, cancellata da chiunque non gradisce. O ricordata per sempre.
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