-
- container colonna1
- Categorie
- #iorestoacasa
- Agenda
- Archeologia
- Architettura
- Arte antica
- Arte contemporanea
- Arte moderna
- Arti performative
- Attualità
- Bandi e concorsi
- Beni culturali
- Cinema
- Contest
- Danza
- Design
- Diritto
- Eventi
- Fiere e manifestazioni
- Film e serie tv
- Formazione
- Fotografia
- Libri ed editoria
- Mercato
- MIC Ministero della Cultura
- Moda
- Musei
- Musica
- Opening
- Personaggi
- Politica e opinioni
- Street Art
- Teatro
- Viaggi
- Categorie
- container colonna2
- container colonna1
Il Castello di Miramare si apre al contemporaneo: la mostra “Naturae” a Trieste
Mostre
di Zaira Carrer
Una coroncina di foglie d’acero, ali di farfalle che diventano pennellate, un cuscinetto di germogli e steli, il suono dei flussi naturali imprigionati dentro una bottiglia. Non si tratta di un dettaglio del Giardino delle delizie di Bosch o di qualche fantasia bucolica da cartolina: sono alcune delle opere parte dell’esposizione Naturae. Ambienti di Arte Contemporanea, a cura di Melania Rossi e visitabile per quasi un anno intero, fino al prossimo 9 novembre.
La grande mostra, ospitata nel Museo storico e Parco del Castello di Miramare a Trieste, si pone come un’esplorazione di ciò che lega —e allo stesso tempo di ciò che separa— uomo e ambiente, e lo fa attraverso le opere di diciotto artisti provenienti da contesti e generazioni diverse.
Tra i nomi, per elencarne solo alcuni: Marina Abramovic, José Angelino, Liu Bolin, Simone Berti, Gianni Caravaggio, Elisabetta Di Maggio, Rebecca Horn, Christiane Löhr, Macoto Murayama, Hermann Nitsch, Serse Roma e Luca Trevisani.
Al di là del percorso espositivo, articolato in dodici sezioni tematiche, è nelle singole opere che Naturae trova il suo reale punto di forza: tutte di altissima qualità, un qualcosa di ormai fin troppo raro nelle mostre di questa portata.
Ogni lavoro è, infatti, una piccola rivelazione, a partire dall’installazione di Pietro Ruffo (Roma, 1978), che ci accoglie all’inizio dell’esposizione. I suoi pesanti tendaggi evocano foreste primordiali, inesplorate: sono un portale per un tempo in cui i processi antropici ancora non avevano segnato in modo irreversibile il pianeta, o, perlomeno, lo facevano in misura minore.
Bellissime sono poi le Geografie Temporali di Sophie Ko (Tbilisi, 1981), realizzate con pigmenti puri e cenere compressi tra il vetro e il supporto posteriore del quadro. Le polveri, però, tendono inevitabilmente a crollare, creando piccole fratture e abbassamenti. È proprio questa tensione tra il collasso incontrollabile e l’atto di resistenza che interessa la Ko, che fa così riferimento alla fragilità e all’imprevedibilità dell’esistenza, che, per quanto cerchiamo di controllare, è inevitabilmente portata al crollo e alla metamorfosi.
Proseguendo nel percorso espositivo, incontriamo la sala dedicata a Jan Fabre (Anversa, 1958), con quattro imponenti opere che raccontano la violenta storia della colonizzazione del Congo belga. Qui, le eliche dei preziosi scarabei gioiello diventano tessere di mosaico, andando a comporre grandi immagini iridescenti, che scintillano sotto i nostri occhi, seducono e, al tempo stesso, lasciano un senso di inquietudine.
Anche l’opera di Marta Roberti (Brescia, 1977) si compone di fronte a noi tassello dopo tassello: in questo caso, le unità di base sono fogli di carta carbone, che, accostati l’uno all’altro, vanno a formare un paesaggio incontaminato, dove figure umane e animali popolano una sorta di denso Eden primordiale.
L’esposizione continua poi negli ambienti esterni del castello, dove incontriamo Towards You di Bianco-Valente e l’imponente scultura Zenith 3 di Mimmo Paladino (Padula, 1948): un cavallo dalle linee essenziali e stilizzate, immerso nel verde del giardino di Miramare.
Sembrerebbe quasi di avere di fronte il cavallo di Troia, che in questo caso, però, non custodisce soldati, ma qualcosa di ben diverso: l’uomo nella sua essenza artistica, che penetra nel cuore della natura non per distruggerla, ma per comprenderla e reinterpretarla.
Non è un’invasione: è un dialogo. E tutta la mostra, in fondo, funziona un po’ in questo modo.