A Napoli, al Maschio Angioino, fino al 25 agosto sarà visitabile gratuitamente la mostra “Il Cono d’Ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare”, un progetto di Andrea Aragosa per Black Tarantella e FM Centro per l’Arte Contemporanea, in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, con il patrocinio della Regione Campania, del Comune di Napoli e della Mostra D’Oltremare.
L’esposizione a cura di Marco Scotini, direttore artistico di FM Centro per l’Arte Contemporanea di Milano, è dedicata a Lidia Curti (1932-2021), co-fondatrice del Centro Studi Postcoloniali e di Genere di Napoli, e «raccoglie più di cinquanta opere, fra cui opere storiche del periodo coloniale in dialogo con i lavori di 12 artisti contemporanei appartenenti alla diaspora africana ed è allestita in due spazi di Castel Nuovo: Antisala dei Baroni nell’ala nord, al primo piano e Sala dell’Armeria, al piano terra. Gli stessi spazi che furono parte della Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale tenutasi proprio a Napoli, nel Maschio Angioino, dal 1 ottobre 1934 al 31 gennaio 1935», hanno spiegato gli organizzatori.
Gli artisti invitati hanno provenienze geografiche diverse e appartengono alla diaspora africana contemporanea: Kader Attia (Algeria/Francia, 1970), Yto Barrada (Marocco, 1971), Intissar Belaid (Tunisia, 1984), Nidhal Chamekh (Tunisia, 1985), Jermay Michael Gabriel (Etiopia/Eritrea/Italia, 1997), Kiluanji Kia Henda (Angola, 1979), Delio Jasse (Angola, 1980), Ibrahim Mahama (Ghana, 1987), Muna Mussie (Eritrea/Italia, 1978), Pamina Sebastião (Angola 1988), Pascale Marthine Tayou (Camerun, 1967), Amina Zoubir (Algeria, 1983), Aimé Césaire (Martinica/Francia 1913-2008).
«Nonostante oggi la rimozione del passato coloniale italiano sia stata compensata da una ricca mole di studi storici e accademici, rispetto a venti anni fa, la mostra “Il Cono d’Ombra” muove dalla necessità di trovare altre categorie concettuali (più sperimentali e meno canoniche), per ripensare quell’esperienza storica in un mutato contesto politico-sociale. Ancora lontano dall’essere una eredità contestata, la politica coloniale fascista in Italia è stata oggetto di ben poche occasioni espositive e di riconfigurazione critica degli oggetti museali accumulati. La felice coincidenza di poter riallestire a Napoli, nello stesso complesso monumentale, quella che fu la vera e propria anticipazione della imperiale Triennale d’Oltremare del 1940, rappresenta la giusta occasione per poter agire all’interno di quell’esperienza, oltre ogni lettura storicamente corretta e plausibile. Non si tratta più di ricostruire un insieme di fatti per integrarli nella conoscenza comune. In gioco c’è la stessa possibilità di lasciar parlare quell’alterità che per secoli ha rappresentato un “cono d’ombra” della civiltà e a cui l’occidente si è rivolto in modo paternalistico, come qualcosa da emancipare».
Ne abbiamo parlato con Marco Scotini, curatore della mostra, nell’intervista qui sotto.
Come è nato il progetto espositivo “Il cono d’ombra”?
«”Il Cono d’Ombra. Narrative decoloniali dell’Oltremare” nasce da una felice coincidenza che potremmo definire “archeologica”. Invitato da Black Tarantella al Maschio Angioino per curare una mostra che facesse seguito alla grande esposizione “Il Cacciatore Bianco. Memorie e rappresentazioni africane” che avevo curato nel 2017 al centro FM di Milano, scopro che quell’importante edificio nel 1934-35 era stato la sede della Seconda Mostra Internazionale d’Arte Coloniale. Rileggere quel passato ingombrante e rimosso è stato il punto di partenza dell’attuale mostra napoletana. Per una ulteriore e casuale coincidenza abbiamo poi scoperto che le sale al primo piano che abbiamo utilizzato erano dedicate all’arte contemporanea – così come era definita all’interno di quella rassegna coloniale. Nella Sala dell’Armeria al piano terra c’era una sezione sul libro, e abbiamo seguito anche quella indicazione. Dunque ci siamo messi, non senza difficoltà, a reperire opere, documenti e foto di quell’esposizione ma il problema più pressante era come presentarle. Napoli risulta pure una risorsa fondamentale per questo tipo di ricerca archeologica, ma anche per le sue istituzioni pionieristiche sui post-colonial studies. Per questo motivo, abbiamo condiviso il piano espositivo con gli artisti invitati, in modo tale da poter creare una contro-narrativa di quell’evento propagandistico che avrebbe poi legittimato la politica imperialistica fascista. Ne è risultato un approccio decoloniale, come hanno riconosciuto gli artisti stessi».
Come sono stati scelti gli artisti invitati e in che modo hanno lavorato?
«Con alcuni degli artisti (come Nidhal Chamekh, Amina Zoubir e Delio Jasse) avevo lavorato già in passato e conoscevo bene il loro interesse a indagare tematiche come il colonialismo, la riparazione o l’archivio. Un aspetto interessante è stata l’inclusione di giovani artisti (come Muna Mussie e Jermay Michael Gabriel) di origini eritree e etiopi ma di base in Italia da un po’ di anni. In questo caso si è trattato di rimettere in circolazione un aspetto diretto dell’eredità coloniale italiana attraverso i suoi soggetti colpiti. Il compito degli artisti de “Il Cono d’Ombra” è stato anche quello di connettersi con opere di pittori come Giuseppe Casciaro e Gaetano Bocchetti, che erano tra gli otto artisti inviati dall’organizzazione della mostra coloniale nelle terre d’Oltremare al fine di evitare una rappresentazione di maniera o da atelier, oppure come Alessio Issupoff che era di origine russa e ritraeva gli africani come soggetti di icone ortodosse. Ma anche Maurizio Rava, Mario Montemurro, Alberto Chiancone e Carlo Celano (che operano negli anni Trenta) fanno parte della mostra, assieme ad altri pittori dell’Ottocento esposti al Maschio Angioino nel 1934-35 come Cesare Biseo e Augusto Valli. Ogni nuova scoperta che abbiamo fatto, l’abbiamo subito condivisa con gli artisti che hanno pensato a opere che potessero creare un gap o un contrasto. Per questo la mostra risulta molto coesa e con una narrativa chiara da seguire».
In che modo questa mostra offre uno sguardo inedito sul passato coloniale italiano?
«Credo che “Il Cono d’Ombra” sia una delle prime mostre in Italia che mettono in rapporto artisti contemporanei africani e l’eredità coloniale al fine di proporre una lettura diversa dei fatti. Siamo di fronte a un grande problema che non si è concluso con la fine del colonialismo ma che oggi ha un’attualità urgente dovuta ai processi migratori e alle convivenze tra culture. In mostra ci sono alcuni capitoli rilevanti come la presentazione del trono del Negus di fronte ai paramenti di iuta del ghanese Ibrahim Mahma, che sottolineano il rapporto tra forme di potere ed economia del lavoro, oppure la sala sul genere dove convivono le sculture di Montemurro e le opere di Amina Zoubir con la sua archeologia del corpo colonizzato. Ma anche le cartoline originali degli anni Trenta con i busti di nudi femminili di colore che ammiccano la pornografia e le opere della angolana Pamina Sebastiao o le foto di Kiluanji Kia Henda. I souvenir fatti in occasione della Seconda Mostra Coloniale uniti ai “poupee” di Pascale Martin Tayou mettono in scena un commento particolare così come quello nato dal dialogo tra le riviste e le pubblicazioni del periodo con l’archivio di Delio Jasse. In sostanza credo che la mostra sia un importante punto di partenza per rileggere quel cono d’ombra in cui si è rinchiuso il colonialismo italiano, un capitolo che ha bisogno di essere riportato in luce attraverso nuove letture, comprensioni e smascheramenti in modo tale che la storia non si ripeta».
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