Si intitola Stavo cercando il tuo cuore lì dentro ma ho trovato solo latte la mostra personale di Cecilia De Nisco (Parma, 1997), concepita per gli spazi dell’ex Chiesa delle Dimesse di Thiene e curata da Marta Papini.
Questo titolo —così dolce, così poetico— ci immerge fin da subito in un’atmosfera intima, sospesa. È lo stesso di una delle tele presentate: un intrecciarsi di corpi morbidi, che giocano, si accarezzano, si stringono, su uno sfondo blu notte. E proprio questo focus sul corpo, presentato sempre in maniera estremamente libera, è un filo rosso che si dipana e unisce tutte le opere in mostra: dagli sfondi scuri vediamo emergere volti arcigni o sorridenti, capi riccioluti, braccia e gambe che vorremmo quasi toccare.
È questo il caso anche della grande pala d’altare che ci accoglie all’inizio del percorso: Maramèo (2024). L’opera, pensata appositamente per la nicchia all’entrata dello spazio, si arricchisce di riferimenti alla storia dell’arte sacra: sembra una deposizione, ma il corpo che vediamo a terra è più vivo che mai e attira le occhiate curiose dei personaggi che lo circondano —e il nostro.
Si notano in questa tela, in particolare, le mani dei protagonisti, che sembrano essere l’elemento centrale di tutte le composizioni della De Nisco: sono mani che sfiorano, stringono, che vengono trafitte da frecce eteree, impalpabili, ma che non sembrano per questo soffrire. Come racconta l’artista: «Forse sono un mezzo per comunicare silenziosamente, o per compromettere completamente la scena. Le mani manifestano delle intenzioni, sta a noi decidere se assecondarle o meno. Se la stanza è buia, il primo istinto è lasciare che siano le mani a guidarci».
Dunque: parti del corpo che si fanno indicative di qualcosa di più ampio e profondo. Il frammento che ci parla dell’interezza. È, questo, un concetto che ritroviamo anche negli eleganti quadretti di Chiara Enzo (Napoli, 1986), di cui undici esemplari sono esposti nella seconda mostra presentata da Fondazione Bonollo: Fragments of reality, a cura di Chiara Nuzzi.
Realizzate su carta con colori a tempera, acquerello, pastelli e matite colorate, le opere potrebbero sembrare, ad un primo sguardo, delle fotografie, tanto è preciso il tratto minuto dell’artista. Quelli rappresentati sono dettagli di corpi e di ambienti: una nuca, un letto disfatto, il neo sulla gamba destra di una ragazza di cui non vedremo mai il volto.
I suoi lavori, sempre di piccolo formato, sono finestrelle su una dimensione intima, familiare: sono frammenti che potremmo cogliere solo in una situazione di estrema prossimità. Lo dimostrano opere come M. supina (2018) e La linea (2014), che rappresentano, rispettivamente, l’ascella di una ragazza distesa a letto e il ventre nudo di un’altra figura femminile. In entrambi i casi, la superficie del quadro, ricoperta da tanti minuscoli tratti di colore, diventa vera e proprio pelle, imperfetta e morbida quanto quella di un corpo fisico, reale.
Sono frammenti, questi, che ci chiedono con forza —ma anche con gentilezza— di essere guardati, di instaurare una relazione con il soggetto dell’opera. Lo sguardo, infatti, è elemento centrale per l’artista: uno sguardo che si sofferma su dettagli intimi, ma che ci porta ad immaginare sempre ciò che non vediamo, l’immagine totale. Lo stesso formato delle opere è complice in questo: ci obbliga ad avvicinarci, a studiare da vicino ogni dipinto.
Con le opere di Cecilia De Nisco e Chiara Enzo, dunque, il corpo si fa narrazione. È questo il potere del dettaglio, che ci parla del tutto; della mano, che diventa ponte tra il mondo fisico e quello interiore; dello sguardo, che ci lascia scivolare nell’intimità e nel tepore.
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