«Vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerarietà. Il coraggio, l’audacia, la ribellione saranno elementi essenziali della nostra poesia». Così tuonava Filippo Tommaso Marinetti nel suo Manifesto del Futurismo, un proclama che non solo ha scardinato il concetto di arte come contemplazione, ma che sembra riecheggiare con prepotenza nelle sale della GNAM di Roma, trasformate in un’agorà contemporanea dove il Futurismo torna a essere la pietra dello scandalo. Perché, diciamolo chiaramente, sarebbe troppo comodo relegare il movimento a un capitolo della storia dell’arte, imbalsamato in una teca didascalica. Il Futurismo, per sua stessa natura, è caos organizzato, una tempesta estetica che rifiuta l’immobilità, un caffè bollente rovesciato sulla tovaglia candida della tradizione.
E proprio da questa premessa nasce Il Tempo del Futurismo, un titolo che sembra già di per sé un paradosso, poiché nulla è stato più insofferente al tempo del Futurismo stesso, che sfrecciava verso il futuro disprezzando ogni orologio e calendario. Ma se Marinetti auspicava di «Uccidere il chiaro di luna» per esaltare il bagliore delle città industriali, oggi la mostra si trova immersa in un chiaroscuro contemporaneo, dove le polemiche – politiche, curatoriali, intellettuali – si intrecciano alle opere come ombre inevitabili, ma forse necessarie. Del resto, il Futurismo non è mai stato un movimento per anime quiete.
Nel segno di un’estetica bellicosa, il Futurismo si presenta oggi non solo come oggetto di celebrazione, ma anche come catalizzatore di un dibattito pubblico che si sviluppa tanto all’interno delle sale espositive quanto nei corridoi della critica e delle narrazioni mediatiche. La GNAM, pienamente consapevole della natura polisemica e intrinsecamente controversa del Futurismo, ha orchestrato un palinsesto che ha saputo trasformare queste tensioni in un elemento propulsivo, traendone un vantaggio strategico per amplificarne il raggio d’azione culturale e mediatico.
La curatela di Gabriele Simongini si configura come un atto di regia sottile, capace di orchestrare un discorso che non si limita all’esposizione delle opere, ma che si snoda in una narrazione polifonica, in cui ogni elemento – dal prestito istituzionale alla presenza di installazioni immersive – partecipa a una partitura concettuale in cui il Futurismo non è una reliquia, ma un organismo in evoluzione. Prestiti prestigiosi, come quelli provenienti dal MoMA di New York e dalla Estorick Collection di Londra, dialogano con interventi contemporanei, quali l’installazione immersiva di Lorenzo Marini, in una struttura espositiva che abbatte le barriere tra tradizione e contemporaneità, tra linguaggio museale e approccio esperienziale. Non si tratta di un compromesso, piuttosto di un dialogo serrato, che mette in scena l’utopia futurista come una tensione mai risolta tra l’iconoclastia e la costruzione di un nuovo ordine estetico.
Nel cuore dell’allestimento emerge con forza la capacità del Futurismo di farsi strumento per leggere il presente. La velocità, il progresso, il dinamismo che animavano il movimento originario non sono qui rappresentati come concetti archeologici, ma come paradigmi che trovano una nuova urgenza nel contesto contemporaneo. Il Tempo del Futurismo non si limita a guardare indietro, perché utilizza l’eredità del movimento come lente per interrogare le contraddizioni del nostro tempo.
L’esposizione, distribuita su ben 26 sale e arricchita da circa 400 opere tra dipinti e sculture, si presenta come un monumentale omaggio al Futurismo, pur non senza insidie. L’abbondanza delle opere, se da un lato celebra con dovizia di dettagli la complessità di questo movimento rivoluzionario, dall’altro rischia di travolgere il visitatore in una vertigine di stimoli, affollando le sezioni e complicando una lettura d’insieme lineare. Gli sfondi immacolati e il percorso obbligato, pur offrendo una cornice visivamente ordinata, non sempre riescono a esaltare appieno la potenza espressiva di ogni singola opera, generando momenti di inevitabile dispersione.
Ma, in fondo, non è forse proprio questo frastuono visivo, questa debordante pienezza, un atto di fedeltà allo spirito stesso del Futurismo? Un’estetica che abbraccia l’eccesso, celebra il caos e invita a perdersi per ritrovarsi, proprio come un “ruggito di automobile” in corsa.
Tra i punti di forza dell’esposizione spicca il dialogo tra capolavori simbolici come Il Sole di Pellizza da Volpedo e Lampada ad arco di Giacomo Balla, che riflettono il passaggio dall’Italia rurale a quella industriale e moderna, illuminata dalla Fata Elettricità. Accanto a queste opere iconiche, i visitatori possono ammirare oggetti simbolo del progresso futurista, come la Fiat Record Chiribiri del 1913, l’idrovolante Macchi Castoldi Mc 72 e strumenti scientifici d’epoca, che testimoniano la celebrazione futurista della velocità e dell’ingegno umano. Questi elementi non sono solo testimonianze storiche, ma paradigmi che dialogano con il nostro presente, in cui la prospettiva verticale anticipata dagli aeropittori si ritrova nell’odierna visione satellitare e nell’uso di droni.
Le sezioni dedicate all’aeropittura, all’arte meccanica e al cinema futurista, arricchite da manifesti, libri e riviste, non si limitano a celebrare il passato: lo reinterpretano come una lente per leggere il presente. Il Futurismo non è rappresentato come un concetto archeologico, piuttosto come una tensione viva, capace di anticipare la nostra attuale estetica della velocità.
La grandezza di Il Tempo del Futurismo risiede, quindi, nella sua abilità di sottrarre il movimento marinettiano alla polvere della commemorazione museale per restituirlo al suo stato originario: un pensiero in perpetuo divenire, più simile a un manifesto incendiario che a una collezione ordinata. La GNAM, con un approccio volutamente rischioso, trasforma l’avanguardia in uno strumento di riflessione critica, rinunciando all’eleganza rassicurante di una rievocazione storica per abbracciare il caos vitale di un’estetica che non smette di interrogare.
Al di là delle polemiche – siano esse giustificate o frutto di pregiudizi – questa rassegna si configura come un gesto intellettualmente audace. Esporre il Futurismo significa confrontarsi con una complessità intrinseca, con un’eredità che sfida la linearità delle interpretazioni e si ostina a scombinare le carte di un discorso estetico e ideologico ormai canonizzato.
Come ammoniva Marinetti nel Manifesto tecnico della letteratura futurista: «Distruggete la sintassi! Bisogna mettere il sostantivo in libertà!». E proprio questa libertà – audace, caotica, talvolta perfino ingombrante – è il filo conduttore della mostra. Non si tratta di un percorso lineare o conciliatorio, ma di una continua frizione tra le opere, il pensiero e il pubblico.
Il Tempo del Futurismo non si limita a mostrare ma agisce: tra lampade ad arco, idrovolanti e sezioni densissime, il visitatore è trascinato in una corsa vertiginosa dove ordine e disordine si alternano senza preavviso. E, in fondo, non è forse proprio questo il trionfo dello spirito futurista? Una tensione costante tra forma e idea, tra modernità e provocazione, che ci ricorda che il futuro – come l’arte – non è mai un luogo tranquillo, bensì un orizzonte da reinventare.
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