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Un brulicare incessante si nasconde tra le crepe della nostra vita; si insinua tra i nostri passi, oltre il nostro sguardo. Gramigne selvatiche reclamano senza distinzione mura e spazi dimenticati. Quale forza misteriosa spinge la vita a germogliare là dove nessuno si sofferma? Sotto il sole del mattino i petali si aprono con segreta mollezza; appena oltre, il verde filiforme spezza il cemento più duro. Cosa racconta questa grazia che resiste? L’immenso abbraccio sotterraneo di funghi e radici resta invisibile, ma il palpito del mondo sembra rivelarsi in ogni singolo granello di polline. E noi? In quale misura siamo parte di una realtà che sta al di là della parola? Cosa ne facciamo del canto silenzioso della natura che non smette di chiamarci a sé?
Lise Duclaux è un’artista che esplora i confini tra l’umano e il mondo vegetale, sostrato originario di ogni essere senziente. Nella sua opera la natura non è solo tema di riflessione, ma un’interlocutrice eloquente, che cerca il dialogo intimo con il visitatore, invitandolo ad aprire occhi e sensi diversi verso altre forme di esistenza che convivono attorno a lui. Così è pure nella sua recente mostra Il grande è sempre fatto del piccolo, allestita da Stéphane Ghislain Roussel presso la Casa Natale di Raffaello a Urbino. Nelle scorse settimane, le pagine di un taccuino visivo e testuale si sono squadernate tra le sale della storica Bottega di Giovanni Santi: un intreccio di disegni inchiostrati, illustrazioni a matita, stampe digitali, esemplari botanici e poesia – il frutto di un mese di studio sulla vita nascosta e spontanea che anima le colline limitrofe. All’immagine è affidato il racconto dell’invisibile; alla parola, invece, il compito di riconferire significato a segnali per noi fuori di ogni codice, lasciando emergere i resti di un legame reciso ormai da secoli.
Tra gli stimoli aforistici che costellano l’allestimento troviamo frasi come: “la terra esige”. Oppure: “natura è una parola per impadronirsi dell’innominabile”. Quanta esistenza abbiamo cancellato – pare dire l’artista – dal nostro orizzonte di pensiero? Cos’è che ci consente di considerarci al di fuori (o al di sopra) di essa, e quindi di poterla dominare? Misconosciuta, o semplicemente ignorata, spesso reclusa, se non del tutto estromessa dallo spazio urbano, la vita vegetale sfugge alla nostra considerazione principalmente a causa della sua apparente immobilità.
Qui nasce, a mio parere, il bisogno della contemplazione del piccolo, al quale possono corrispondere due marcati rovesciamenti percettivi. Da un lato la sovversione di scala: il restringimento dell’osservatore ingenerato dalla scoperta della vastità del marginale; dall’altro la contrazione temporale, la conquista di un ritmo diverso, ma comunque instancabile e con il quale è possibile armonizzarsi. Il riconoscimento di una perdita: ecco la dolorosa consapevolezza attraverso cui passa l’approccio di Duclaux, chiave, al contempo, per accedere alla bellezza che ci circonda. Il “sentire con triste meraviglia”, come recitano certi versi di Montale.
Germinazione diretta dell’opera espositiva è stato infine il Teatro di Verzura: un’anteprima scenica presentata il 22 di settembre al giardino pensile del Palazzo Ducale urbinate, e che verrà riproposta tra un anno in forme più compiute nel Granducato di Lussemburgo, con la regia dello stesso Roussel.
A raccogliere in un unico senso i profumi e i colori scenografici della salvia selvatica, delle rosacee e del trifoglio, incastonati tra cielo e travertino secolare, è stato l’incanto lirico delle arie seicentesche. Canti melodiosi accompagnati dalla tiorba rinascimentale e inframezzati dagli interventi diretti di Duclaux, hanno coinvolto emotivamente il pubblico, superando qualunque barriera temporale, culturale o scenica. È in questo luogo e con questo spirito, entrambi fondati sulla permeabilità osmotica e la condivisione, che il silenzio meditativo della mostra si è spalancato verso il grido urgente di una responsabilità ecologica collettiva. Ecco dunque: “Che si può fare?” intonava ripetutamente l’ultimo brano antico di Barbara Strozzi, mentre Duclaux, affacciata ai finestroni di pietra, guardava verso il verde intenso delle colline, suggerendo la risposta.