Ad accogliere lo spettatore alla mostra Storie incompiute di Marina Paris, a cura di Valentina Ciarallo, è uno spesso panneggio nero, al contempo preludio e sintesi dello scenario che va a paventarsi di lì a poco, una volta varcata la soglia: un ambiente dai contorni distopici, in cui si fatica a riconoscere la galleria Gilda Lavia, ormai un’istituzione del quartiere San Lorenzo. Le fotografie bicromatiche dell’artista, catalizzatrici dell’unica luce che irradia la stanza, proiettano il pubblico in un ambiente rarefatto, in cui le opere guidano non solo nel percorso ma anche nella comprensione dei rapporti causa – effetto che si instaurano tra i soggetti ritratti. Certamente l’allestimento ponderato sull’estetica di Paris produce l’effetto sperato, riducendo all’essenziale il prospetto scenico dove si squaderna l’impianto narrativo del percorso espositivo e ponendo l’accento sugli scheletri urbani immortalati dall’artista, che nella loro embrionale fase progettuale prefigurano uno spazio mai concretizzato ed attivo solo in potenza.
L’ambizioso progetto di Paris comprende scatti i cui soggetti si pongono in relazione l’uno con l’altro, rifuggendo la schematizzazione sterile della bozza plastica ma creando una fitta rete di scambi e reciproche congiunzioni, fino a realizzare un quadro unitario e complesso che ruota intorno a figure e simulacri di una Roma passata, dal gusto classico, che si compone di icone ormai vive solo negli spazi degli archivi.
Il lavoro dell’artista prende le mosse dal progettista Luigi Moretti, i cui processi creativi mai portati a termine a metà del secolo scorso sono custoditi nell’Archivio Centrale dello Stato nel quartiere Eur: dall’ampliamento dell’Accademia Nazionale di Danza, al nuovo stadio di nuoto, fino a Villa De Angelis, tutto l’incompiuto si compie nelle fotografie di Paris, che dal 2019 seziona accuratamente i prospetti plastici dell’architetto romano per coglierne vuoti e pieni, studiandone le rifrangenze della luce e immergendoli in scenari surreali in cui a risaltare è solo la forma pura della struttura nella sua incompiutezza.
A proposito della genesi della mostra, la curatrice ne chiarisce ispirazioni e intenti: «Abbiamo deciso, insieme a Marina, di far uscire dal cassetto alcuni scatti inediti che ha realizzato diversi anni fa e che non aveva mai mostrato al pubblico. Questa è stata la giusta occasione per esporre un materiale prezioso, considerando la difficoltà attuale di fotografare i plastici all’interno dell’Archivio di Stato. La galleria di Gilda Lavia, inoltre, si presta come spazio ideale per sperimentare e creare progetti site-specific, un approccio che seguo anche io abitualmente. La galleria è stata interamente rivestita di nero per creare la giusta oscurità da cui far emergere gli scatti macro e micro in bianco e nero. Il ritmo espositivo è scandito anche dal suono, che ne amplifica l’impatto. È una mostra immaginata per condurre il visitatore in un altro spazio, dove nulla è vero ma tutto è verità. Per Marina Paris il mezzo fotografico diviene ricerca e non compimento, esprimibile nella certezza di un non finito che nel caso di Moretti e nella sua incompletezza trova la bellezza del compiuto. Il progetto potrebbe essere esteso e amplificato anche in altri contesti».
È proprio il “non finito” a dare un senso alle testimonianze fotografiche, che vogliono metaforicamente restituire un’essenza a ciò che resiste solo nell’estetica, privato del termine ultimo che ne restituisce l’unità complessiva, conferendogli dignità di esistere; questa dignità Paris la rintraccia con il mezzo prospettico desunto con fare mai banale, ma che si serve della luce per indagare le scelte stilistiche dell’autore e che crea quasi un motivo eziologico all’interno delle opere, ripreso ed esaltato in mostra dalle scelte luministiche dell’allestimento. L’accento sul vuoto è posto in essere dal romanzo del 1952 di René Daumal Il Monte Analogo che ha ispirato le ragioni di questa mostra: se nella vulgata il vuoto è associato all’incomunicabilità, Paris lo propone, in congiunzione con la luce, come materia di riflessione e rielaborazione del dato di partenza, quasi rendendolo ductus del suo lavoro, nonché sintesi che denota di completezza la stasi perpetua in cui si cristallizzano le architetture morettiane. La stimolazione visiva confluisce in quella sonora attraverso un suono in diffusione in mostra che rievoca scenari surreali e in cui riecheggia la vacuità degli spazi, sembrando così concludere quel disegno circolare che vede nelle fotografie di Paris il principio e nell’audio il suo termine come in una sinfonia sinestetica.
«Le innaturali concentrazioni metropolitane non colmano alcun vuoto, anzi lo accentuano» scriveva Eugenio Montale, eppure nel caso delle istantanee in mostra non si assiste ad un’esaltazione limitata alla forma urbana, quanto più del ritmo cadenzato nato dalla combinazione tra spazio, luce e dimensione plastica; le fenditure che celano in sé gli squarci abbaglianti catturati dalla fotocamera di Paris permettono di cogliere le declinazioni courbusiane del brutalismo di Moretti, ma soprattutto ne concludono, come in concerto, l’opera, traslandola nella dimensione del vissuto attraverso l’aggiunta dell’elemento reale e pulsante, la luce. Il vuoto descritto dal poeta sembra, nel caso della mostra di Paris, assolvere alla funzione riempitiva di una dimensione altra, ontologica e non emotiva, estranea al dato tecnico che prevede la chiusura di un progetto e che restituisce una destinazione metaforica alla perfetta incompiutezza.
La mostra di Marina Paris proietta in una narrazione inedita, dove, servendosi di presupposti dati in partenza, si rielabora uno spaccato di vissuto del quale vuoto e sospensione guidano nella lettura. Come “Il Monte Analogo”, interrotto nel suo racconto a metà di una frase, le creature dell’artista rimangono sospese in un limbo tra realtà e visione, dove non c’è spazio per gli accadimenti empirici, ma solo per un vuoto eloquente, che rende l’esposizione, in senso analogico, un esperimento per riflettere sul significato antologico dell’incompiuto.
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