Quale luce rischiara i segreti anfratti delle nostre stanze mentali permettendoci di accedere alle visioni che vi albergano? Mi sono posta questa domanda, forse per la prima volta, osservando i dipinti del giovane pittore cinese Bu Shi, la cui recente produzione, in gran parte inedita, è qui esposta per la prima volta in modo esteso. L’artista, laureatosi prima in pittura a olio al College of Fine Arts di Sichuan e successivamente in arti visive all’Accademia di Belle Arti di Bologna, sembra essersi lasciato guidare proprio da questo interrogativo per individuare la cifra espressiva che lo contraddistingue e che trova il suo approdo finale nell’elaborazione di un’intrigante ipotesi di intersezione tra estetica orientale, storia dell’arte occidentale e libero attraversamento immaginifico.
Dal punto di vista tecnico, il suo principale campo di sperimentazione è la restituzione delle impercettibili gradazioni del tono scuro, inteso sia come luce e sia come materia pittorica. Il colore, prevalentemente tempera legata con colla di coniglio e fissata con lacca cinese, è applicato a delle caratteristiche tavole lignee di piccole dimensioni, ciascuna delle quali ospita una differente scena di interno di cui il disegno costruisce illusionisticamente la tridimensionalità, ambiguamente credibile pur nella sua sottile disarticolazione. Man mano lo sguardo si abitua a penetrare la semi-tenebra superficiale del piano pittorico, vediamo affiorare dal buio misteriose camere disabitate, che all’affinarsi della nostra percezione scopriamo essere disseminate di ulteriori aperture prospettiche, preziosità materiche, incisioni calligrafiche e incongruenze di scala. Dalla densità di una pittura preparata quasi esotericamente e poi lucidata con la seta fino a raggiungere la consistenza ideale, lentamente emergono oggetti simbolici e dettagli spiazzanti, la cui surreale coesistenza condensa in enigma la molteplicità di riferimenti visivi e di suggestioni a cui Bu Shi attinge. Dal punto di vista iconografico, l’artista convoca elementi provenienti da diverse epoche e culture, come cofanetti smaltati cinesi, cristalli magici, uova su calici di bronzo cesellati, frutti, giardini zen tascabili o quadri-nel-quadro che fanno accedere ad altre stanze o paesaggi (solo per fare alcuni esempi, ma l’invito è quello a lasciarsi stupire dalla loro variata reiterazione). Ogni pezzo di questa collezione, al tempo stesso reale e immaginaria perché molti degli oggetti ritratti sono effettivamente posseduti dall’artista, è impeccabilmente descritto nelle sue qualità di texture, riflesso e trasparenza, ma è anche interpretato secondo precise specificità stilistiche, corrispondenti a quelle delle fonti della storia dell’arte da cui deriva.
Ciò che raccorda questa pluralità in una visione metafisicamente unificata, è proprio la risposta all’interrogazione iniziale, ovvero la nitida luce nera che scolpisce i profili e irradia le superfici, accendendole con bagliori di metallo, di lava e di perla. Se da un lato la sua intuizione risale all’incontro dell’artista con l’intensa luce crepuscolare dell’Europa Mediterranea, la sua origine mentale è dimostrata dal confronto con le altre fonti di luce messe in campo, come inserti decorativi in oro, fiammelle di candela, lune in miniatura o lampadine accese, la cui valenza risulta essere puramente teoretica per la connotazione scultorea, volumetrica e grafica delle loro emanazioni luminose. Contemplando un quadro di Bu Shi, l’effetto immediato è quello di guardare attraverso uno di quegli specchietti neri portatili utilizzati nel ‘700 dai pittori di paesaggio per circoscrivere il campo visivo da dipingere ed esaltare i contrasti, anche se nel caso del pittore cinese tale impressione è l’esito di un processo opposto, che pur assolve alla medesima funzione unificatrice. Mentre i vedutisti si servivano del riflesso annerito di una porzione di realtà per ricavare dall’indistinto del visibile una composizione gerarchicamente organizzata, Bu Shi materializza una vera e propria luce endogena al colore e se ne avvale come veicolo di un’epifania in cui si manifestano le possibilità dell’impossibile. Quello che lui ricerca nella contraddizione tra la razionalità della rappresentazione e la sua ambivalente negazione-enfatizzazione tramite una luce di tenebra, è una condizione esoterica in cui l’assurdo, il mistico e il metafisico, compenetrandosi nell’artificio della pittura, impregnano la visione come un filtro attraverso il quale l’artista ci suggerisce di riconsiderare anche l’esperienza ordinaria.
Il titolo della mostra parafrasa l’imprescindibile classico settecentesco della letteratura cinese Il sogno della camera rossa (Hongloumeng 紅樓夢) che, raccontando le vicende legate al ciclo buddhista delle rinascite di una famiglia aristocratica, tramanda un ricco patrimonio di notazioni estetiche sull’estenuata nobiltà dell’epoca. Le atmosfere evocate dalla fama di questo libro sono servite da impronta per entrare nei dipinti di Bu Shi e per avvicinarsi alla sua filosofia estetica, sintetizzata come un distillato di squisitezze visive che sembrano proliferare quasi per gemmazione l’una dall’altra e che discendono dalla rielaborazione dei repertori artistici più colti della tradizione orientale e occidentale, oltre che delle curiosità naturali che l’artista ama raccogliere. Le «camere scure» del giovane pittore sono ermetiche wunderkammer in cui il tempo è sospeso in una pasta cromatica magnetica, che accende il desiderio di vedere oltre e attraverso lo schermo dell’illusione. Il sogno di Bu Shi è dunque quello di una pittura che, cercando la propria essenza in una zona liminale tra la percezione e l’invenzione, si addentra nelle più recondite stanze dell’invisibile per aspirare a un sublime che si rivela molto più prossimo a noi di quanto potremmo sospettare.
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