Categorie: Mostre

Il tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky. Capolavori dalla Fondazione Maeght | Palazzo della Gran Guardia

di - 31 Marzo 2020

“Forse un mattino andando in un’aria di vetro” Giacometti fa l’ultimo viaggio. È il 1965, una manciata di mesi prima dalla sua scomparsa, parte in nave, la “Queen Elizabeth”, si sta dirigendo verso l’America, a New York. “E se ne va zitto, tra gli uomini che non si voltano, col suo segreto”. E mentre se ne va, il suo volto si assottiglia sempre di più nei suoi silenzi. Solo, pensoso, col bavero alzato, guarda davanti a sé lo skyline della città avvolta nella nebbia.

Giacometti è ammalato da tempo, non conosce le dimensioni della città e allora parte per farsi accettare un progetto al Rockfeller Centre, per far esporre al di là dell’Oceano le sue opere, quelle opere per cui è rimasto celebre e che, dopo molti anni dalla sua morte hanno raggiunto cifre da capogiro (Tete a 70 milioni di dollari, L’Homme qui marche venduta nel 2010 per 104 milioni e Chariot nel 2014 per 101 milioni).

L’artista, più che per la sua biografia – un argomento inestricabile con l’opera, finalmente trattato alla mostra a lui dedicata a Verona – è conosciuto per le sculture che somigliano a esili fuscelli in gesso e argilla, smagriti steli di bronzo fuso.

Il tempo di Giacometti in mostra

Curata da Marco Goldin, l’esposizione “Il tempo di Giacometti. Da Chagall a Kandinsky. Capolavori dalla Fondazione Maeght”, dà conto dell’intera raccolta dei due collezionisti Marguerite e Aimé Maeght, (una coppia visionaria che ha anche organizzato la prima mostra surrealista del 1947). Ma non si ferma qui. Complice il catalogo “romanzato”, che si può dire più un viaggio sentimentale sulle orme di Giacometti, la mostra è diluita tra disegni, bronzi e quadri dell’artista svizzero, dove, lungo le sale seicentesche del Palazzo della Gran Guardia, sfilano anche tele e sculture di Calder e Braque che occhieggiano con Chagall, Dérain, Léger, Mirò.

Alberto Giacometti nasce all’incipit del “secolo breve”, nel 1901, muore 65 anni dopo. La sua ricerca artistica, come ben evidenziato in mostra con un nutrito numero di opere, all’indomani della seconda Guerra Mondiale, ha incarnato lo spirito esistenzialista, il rovello intimo che affliggeva la società occidentale messa in crisi dagli orrori del conflitto. Giacometti stesso ne paga lo scotto, dovendo lasciare Parigi per raggiungere la madre a Ginevra, nel momento in cui la Germania invade la Polonia. Dopo l’esperienza surrealista, dal 1935 circa in poi, la sua ricerca muove in direzione di un’analisi dell’oggetto più approfondita, in grado di tradurre l’emozione interiore. Vuole ricostruire la realtà, ne è affamato, lo dichiara apertamente: “Faccio pittura e scultura per mordere la realtà, per difendermi, per nutrirmi, per essere il più libero possibile”. È soltanto molto più tardi, con la partecipazione nel 1958 alla Biennale di Venezia, che gli sarà riconosciuto il proprio valore.

Lo scultore, nato a Borgonovo, in Val Bragaglia, cerca soprattutto di carpire il dolore che nasconde l’essere umano, lo dicono le dichiarazioni dei suoi amici e modelli, lo dice anche Jean Genet. Lunghe le pose, silenziosissime, si svolgono sempre, per 35 anni, nello stesso luogo, lo studio parigino. Cerca così, anche nell’aspirazione a un’immobile ieraticità, di dare coerenza a una realtà che gli sfugge sempre di più. Scolpisce e disegna innanzitutto per imparare a vederla e comprenderla ma non per dargli spazio, volume, semmai per comprimerla.“Faccio pittura e scultura – come sottolinea Goldin in catalogo – per vedere meglio” – ha dichiarato e questo passa attraverso lo sguardo.

Alberto Giacometti, L’homme qui marche I, 1960
bronzo, cm 183 x 26 x 95,5
Saint-Paul-de-Vence, Fondation Marguerite et Aimé Maeght
© Claude Germain – Archives Fondation Maeght (Francia)
© Alberto Giacometti Estate / by SIAE in Italy 2019

Le figure esili di Alberto Giacometti

Il tempo che vive, complesso, inspiegabile, intende ricostruirlo mediante un processo riduttivo che sostituisca il vecchio con un nuovo rapporto strutturale e spaziale. Le sue figure, alte, strette, filiformi, portate all’eccesso del verticalismo, non sono nient’altro che la metafora visiva, formale di una condizione esistenziale dolorosa e inaccettabile, come poteva essere il periodo tra le due guerre. Allora ecco che spuntano le sculture, ridotte al minimo della materia, capaci così di esprimere meglio l’essenza, ecco che iniziano le “Donne in piedi” e gli “Uomini che camminano”, figure che si muovono inermi. Il suo è un procedimento inverso, la scultura monumentale era già rigettata da tempo, c’era già stato Costantin Brancusi. L’attenzione ora è rivolta alle forme del primitivismo più astratto, alla tradizione dei volti del Fayum, Il volto è appunto, ciò che riesce a vedere meglio, diventa esperienza assoluta “perché nello sguardo si riconosce il centro della figura, il passato come il futuro, la memoria come la previsione”.

Tutte le figure di Alberto Giacometti sembrano stare su un punto d’equilibrio, al limite tra presenza e assenza, scardinano l’idea di monumentalità, alternando a opere di grandi dimensioni, altre longilinee e sottili. Nel 1940 scrive : “Con mio grande spavento, le mie statue hanno cominciato a rimpicciolire”. E a dir la verità, è stata “una tremenda catastrofe, mi ricordo che, per esempio, volevo fare a memoria la figura di una donna che amavo (…) è diventata così piccola che non ho potuto mettere nessun particolare”.

Ogni opera finisce per diventare alta un centimetro, talmente piccola che va riposta in scatole di fiammiferi. Sempre più fedele a quella volontà e necessità di dar corpo plastico a una realtà che si presenta precaria e frammentata, come un fantasma sfuggente, senza più riferimenti spaziali certi, è innanzitutto la realtà della figura umana che vuole cogliere dentro un’identità scarnificata fino all’osso. Tutto al contrario di come si muoveva, all’incirca negli stessi anni, Rodin che usava il pantografo per ingrandire le sue sculture.

Oltre l’impaginazione dello spazio, il prestigioso prestito delle opere e il ricco catalogo, la mostra ha anche il merito di aver messo a nudo Giacometti come uomo, attraverso foto – poster di lui e della sua famiglia, con ritratti dove rivela appunto un precoce talento nel disegno.

Nella foto presente in catalogo, dell’altro atelier, quello di Stampa, tra gli oggetti sparsi: occhiali, boccette, carte e sigarette, di quelle che gli rendevano la voce roca, strozzata, ci sono anche due sculture e un vaso di alchechengi. È li, tutto il suo mondo.

Il curatore della mostra, Marco Goldin lo immagina così immerso nel suo laboratorio d’alchimia a comporre e scomporre, plasmare, come un dio, le sue creature di argilla o terracotta, intento a guardare in faccia la scultura che prende vita dalla materia che lentamente consuma tra le mani.

Anna de Fazio Siciliano

Dal 18 novembre al 5 aprile

Il tempo di Giacometti da Chagall a Kandinsky. Capolavori dalla Fondazione Maeght | Palazzo della Gran Guardia, Verona

Virtual Tour: https://www.lineadombra.it/ita/mostre-eventi/il-tempo-di-giacometti/virtualtourvr.php

Critica, storica dell’arte e redattrice per prestigiose riviste di settore (Exibart,Art e Dossier, Finestre sull’arte) ha all’attivo numerosi articoli e interviste a galleristi (Fabio Sargentini), direttori di Musei (Anna Coliva) curatori (Alberto Fiz), vertici di società di mostre (Iole Siena, Arthemisia Group e Renato Saporito, Cose Belle d’Italia). Da tempo collabora con la Direzione della Galleria Borghese con la quale dopo aver prodotto una ricerca inedita sul gusto egizio ha svolto un lungo periodo di formazione. Nel 2015 fonda Artpressagency la sua agenzia di ufficio stampa, comunicazione, critica d’arte e di editing che sta espandendo e che ha visto collaborazioni notevoli con colleghi e musei, istituzioni su tutto il territorio nazionale (MaXXi di Roma, Biennale di Venezia, Zanfini Press, Rivista Segno, ecc.). Lavora come editor per Paola Valori e in qualità di addetta stampa scrive per le mostre di Studio Esseci, Arthemisia, Zetema, Mondomostre, ecc. Tra le pubblicazioni più importanti: “Margini di un altrove”, catalogo della mostra svoltasi  nel 2016 a Siracusa in occasione delle rappresentazioni classiche, “History is mine _ Breve resoconto femminile ”: unico capitolo dedicato al genere femminile pubblicato nel libro “Rome. Nome plurale di città” di Fabio Benincasa e Giorgio de Finis, “La verità, vi prego, sulle donne romane”, indagine archeologica e figurativa sull’assenza nei luoghi delle donne nella Roma antica, per FEMM(E)-MAAM ARTISTE. Al momento, oltre all’aggiornamento di Report Kalabria, indagine sulle contaminazioni artistiche contemporanee nei luoghi archeologici in Calabria, si sta occupando di promuovere un progetto originale degli artisti Francesco Bartoli e Massimiliano Moro, anche dei linguaggi multimediali applicati a eventi espositivi.   Gli articoli di Anna su Exibart.com

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