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Il vuoto emerso e utilizzabile di Guido Strazza
Mostre
Colpisce di Guido Strazza, anche in questo ridotto nucleo di grandi opere (tre intorno ai 180 x 180 cm, due 221 x 176 cm e tre 181 x 50 cm), la coerenza severa senza divagazioni protesa all’elaborazione e alla scoperta di nuove e decisive formulazioni linguistiche formali. Ogni quadro ha un suo proprio mondo con regole autonome che però vengono da una precedente opera e vanno verso un ulteriore, radicalmente diverso, dipinto, come accade alle persone di uno stesso lignaggio nel succedere del tempo.
Strazza fa ragionare il segno insieme alla struttura insieme alla profondità. Nella prima opera (Ultimo) ricercare un centro, del 1973, una nebbia sfumata occupa centralmente, quasi fino al bordo della tela, la scena, segnando una profondità che così unificata ha un sapore metafisico (una sostanza trovata tra la fisicità, esplorabile in un unicum di invisibilità), accentuato da due linee che, legando gli angoli opposti, si incrociano perpendicolarmente al centro, quasi in una prospettiva involontaria poiché Strazza accentua la loro azione di superficie rendendole tridimensionali con due sottili spaghi; quindi: carattere effusivo e tensione lineare superficiale si fondono a distanza, mantenendo una separazione tra i due stati, che però comunicano inventando uno spazio da uno ‘scarto’, da uno svuotamento che si riempie di fitto vapore con una struttura lineare possibilmente prospettica.
![](https://www.exibart.com/repository/media/2023/07/GuidoStrazza_6.Ultimo-ricercare-un-centro-1973-1024x999.jpg)
Strazza, in prossimità degli angoli, rende la linea, che parte da ogni vertice, blu scura, accentuando il carattere superficiale dell’azione pittorica, dando percettivamente all’osservatore una densità scura che resta ai quattro angoli e che incrementa la dinamicità, non dell’illusione prospettica, ma al contrario della concreta divaricazione dello scarto, o dello spazio svuotato subito riempito in profondità lacunare dal soffio di una nube. La profondità che si crea in questo dipinto è effusiva da un centro, ed è segno di uno spazio vuoto che è tridimensionale proprio perché non è ritratto ma provocato da piccoli tradimenti della superficie come il volume del filo o l’oscurità della zona degli angoli che è in verità lo stesso filo reso blu (ogni angolo scurito sembra spingere tridimensionalmente lo spigolo verso l’esterno, così come il trovare la tridimensionalità dei due fili porta l’osservatore a ragionare su uno stato esterno e autonomo della superficie). È l’autonomia delle varie parti che, tenute insieme, dal loro frizionare l’una con l’altra, crea lo spazio per un vuoto concreto e servibile, per ora soltanto verifica di sé stesso.
Dalla parte opposta della sala sono appesi due alti quadri rettangolari, due fasi successive, ambedue del 1976 (il titolo è sempre Trama [quadrangolare]). I tre elementi qui si vogliono incontrare, mischiare, come fossero in un impasto di prossimità. La tela è gremita di rigidi segni lineari, che hanno la volumetria di uno spago sottile, in una miriade di segmenti trasversali e paralleli, alternati (lo si coglie avvicinandosi) a tratti simili ma tracciati con la grafite che formano l’ombra di una scacchiera dissolta e impalpabile (linee sottili e bianche, quiete e morbide come gesso, la inquadrano delicatamente). L’atmosfera è grigia. La vera struttura è il risaltare (chiaro per la luce) dei segmenti-spago; la scacchiera leggera di linee bianche funziona in quanto spazio riassorbito, o che si riassorbe, mentre la scacchiera nube che sembra scivolare dietro in profondità è in realtà (e concretamente) intromessa ai segmenti-spago con molti segmenti di grafite, e dissolta in quella matericità, in frammenti che veri e similari spezzano la massa. Quindi abbiamo uno interscambio tra stati che, mischiati, danno corpo a un vuoto, non individuato ma manifestato, non ambiente, ma ‘cosa’, sostanza tradente, svuotata in sé per interpolazione: un vuoto che è condizione (e il quadro è in sé questa ‘cosa’, ‘cosa’ che si diffonde nel reale nostro, di osservatori, e nel reale del quadro scenico, occupando quella transizione tra i due reali e unendoli e tenendoli insieme).
L’opera centrale (Segni di Roma del 1979) prepara l’asta della linea spessa e nera da altre linee nere sottili sempre più ravvicinate che da sinistra la raggiungono e la generano, vivente (il vivente nel vuoto si anima, vibra fino a palesarsi). Una stessa linea solitaria, tangente a questa e specchiata da essa, genera un non identico triangolo allungato presente in tutte e tre le opere, in esse raggiunto e realizzato con procedure e approcci distinti. Lo spazio libero della tela intorno alla linea spessa di destra, e lo spazio pieno di sottili linee a sinistra dell’altra linea, tengono in equilibrio una stabilità che è permessa dal vuoto circostante, della tela e oltre, tridimensionalmente dilagante.
![](https://www.exibart.com/repository/media/2023/07/GuidoStrazza_1.Segni-di-Roma-1979-282x1024.jpg)
L’opera di destra introduce da una parte una zona geometrica riempita da un disteso velo di grigio grafite, e dalla parte opposta (al centro sta il quasi identico triangolo allungato) una nube nera corposa e segnica dai bordi largamente frastagliati e colma di ulteriori linee arcuate e slanciate che aggiungono nero a nero. È una nube forte, poderosa, che si scatena ben oltre il bordo della geometria interna, e proviene e si spande da oltre il bordo della tela. Il vuoto ne è la caratteristica principale, un vuoto che sprofonda nella presenza, che avvicina la lontananza, e stringe il distante al prossimo. Il velo di grafite, dall’altro lato dell’opera, fa scivolare il vuoto in se stesso, in un remoto quieto e siderale, come sui piani inclinati e infiniti della mente in cui osservazione e percezione dilagano. Lì il vuoto digrada in altro vuoto. E questi due tempi o stati del vuoto vengono difesi e separati dal triangolo allungato che a sinistra è formato da una barriera di fitte barre nere e tese di vapore trattenuto e a destra dall’ampio frastagliarsi della nera nube ammassata che si appoggia pesante fino alla linea spessa, inclinata ripida, che anche supera in ampi segni tumultuosi, e lì un vuoto sfrecciante fatto dal grigio chiaro della tela (che a dire il vero si trova anche in una fascia a sinistra in alto, prima di giungere al velo di grafite, che prosegue oltre il vertice centrale, impedendo allo spazio si fissarsi, e mantengo dinamico il vuoto, non solo omnidirezionale, ma polidirezionale, come se si potesse tracciare una strada nel vuoto, e avventurarsi quasi nello spazio della mente, attraversando oltre la fisicità del mondo (Roma obelisco del 1980).
![](https://www.exibart.com/repository/media/2023/07/GuidoStrazza_3.Roma-obelisco-1980-277x1024.jpg)
Ecco che Strazza riesce infine ad unificare in una sola ‘cosa’, linea, profondità e struttura, per far emergere, chiaro e netto nell’esperienza che lo vive, il luogo del vuoto. Strazza va oltre Fontana poiché egli non suggerisce uno spazio ulteriore (che sta dietro il taglio e la tela) ma lo rende emerso con le sue proprie caratteristiche utilizzabili e future, e salutari. Perché solo ciò che si palesa chiaro può essere vissuto con armonia, e l’armonia è la sola cosa che trasporta ad un futuro ulteriore. Da questo piccolo nucleo di opere, situato a metà della vita centenaria del pittore, può essere il vertice da cui si può studiare a ritroso il significato limpido dell’opera di Strazza, come anche procedere per scoprire le ulteriori e fruttuose indagini che, procedendo per cinquant’anni, raggiungono il presente di oggi. Questo entusiasmo per la scoperta possono darlo pochissimi artisti e pittori.
![](https://www.exibart.com/repository/media/2023/07/GuidoStrazza_documentario4-1024x578.png)