In un’intervista pubblicata un anno fa, Eva Fabbris, direttrice del Museo Madre di Napoli, sosteneva l’idea di un approccio museale improntato alla multidisciplinarietà. Questa affermazione trova piena coerenza nella mostra Il Resto di Niente, visitabile fino al 29 luglio 2024, curata dalla stessa Fabbris con Giovanna Manzotti. Nata da un’idea di Sabato De Sarno, direttore creativo di Gucci, l’esposizione propone una narrazione corale sul senso dell’abitare, sulle sue implicazioni emotive ed esperienziali e sull’immaginario estetico, a partire dalla concezione urbanistica dell’architetto Aldo Loris Rossi.
Il percorso espositivo è attraversato da un corpus di disegni su carta, stampe su radex, tavole e fotografie che rivelano l’impostazione filo-modernista delle opere architettoniche di Rossi – e Donatella Mazzoleni – come il complesso residenziale di Piazza Grande e la Casa del Portuale. Il nucleo abitativo modulare e il suo rapporto con il contesto specifico e le persone rimangono al centro di queste opere. Queste strutture visionarie, che rasentano la fantascienza, richiamano i progetti futuristici di Antonio Sant’Elia e adottano un approccio umanistico di derivazione wrightiana.
Attorno a queste “utopie concrete” si trovano giustapposte e in dialogo le opere degli artisti che esplorano dinamiche umane, esperienza individuale e collettiva, e l’interazione tra spazio, forma e significato. Ancor prima di giungere alla prima sala, precisamente nel vano scale, attraverso l’installazione sonora di Sara Persico risuonano campionamenti acustici e registrazioni vocali raccolte a Tripoli, in Libano. Brutal Threshold (2024) è il titolo dato all’alternarsi di dissonanza e armonia che puntualmente si genera a partire dalla sovrapposizione delle tracce audio riprodotte dai due altoparlanti, che accompagnano il visitatore in questa ascesa. Chiaramente, traspare una certa analogia tra l’azione del suono sullo spazio, intesa come forza plasmante dal punto di vista ambientale, nella misura in cui permette un’esperienza estetica totalizzante.
Giunti alla prima sala, ci si imbatte in una delle tre sculture gonfiabili realizzate da Franco Mazzucchelli, che occupa e ingombra la maggior parte dello spazio. Nonostante l’effettiva leggerezza che caratterizza Catena (2024), la sua struttura – come nel caso di Elica (2023) – mette in evidenza il suo carattere “architettonico”, costringendo il visitatore a confrontarsi con una prevaricazione spaziale e a muoversi secondo lo spazio percorribile che essa prefigura. Questa impostazione invita certamente a riflettere sul rapporto tra l’individuo e l’ambiente costruito, enfatizzando come l’architettura possa modellare le esperienze umane e influenzare il comportamento sociale.
Proseguendo, colpisce l’impostazione socio-antropologica di Tobias Zielony, che, partendo dalle celebri strutture di Rossi, ne offre una sorta di rilievo poliziesco. Gli scatti della Casa del Portuale, infatti, mostrano i segni degli eventi e delle persone che hanno attraversato questo edificio, a circa quarant’anni dalla sua costruzione. Si compone così uno sguardo dialettico che mette a confronto presente e passato, ma soprattutto il modulo geometrico con le differenze delle espressioni individuali che caratterizzano il quotidiano. Questo contrasto evidenzia come le strutture di Rossi, sebbene basate su tali principi, interagiscano con le storie e le esperienze uniche delle persone che le abitano.
Un approccio, forse, più “apocalittico” appartiene invece a Özgür Kar, la cui pratica artistica esplora le conseguenze negative sul sociale a proposito dei progressi tecnologici mediali. La sala si apre allo sguardo dello spettatore con un display in cui appare la rappresentazione di un reticolato. Se in The Gate (2023) il rimando a uno stato di abbandono, o se si vuole alla vandalizzazione della rete come espressione di una differenza nel ritmo paratattico, in A guy under the influence (2020) si palesa una chiara critica nei confronti dell’influenza dei media che tenderebbe ad alienare gli individui e, per estensione, a plasmare una società atomizzata.
Alquanto straniante è invece l’operazione condotta dal duo RM (Bianca Benenti Oriol e Marco Pezzotta): gli ombrelloni da stabilimento balneare riposizionati all’interno del museo creano un ribaltamento che rompe con la loro funzione pratica, per trasformarsi in props evocativi, scenografie che rimandano all’immaginario comune, alle memorie individuali e a un’atmosfera gioviale, racchiuse in una sala.
Questo rapporto contrappositivo tra interno ed esterno ritorna in Cars (2022), disegni realizzati da Angharad Williams. L’automobile, che all’inizio del secolo scorso fu per Marinetti più bella della Nike e negli anni Settanta per Barthes un «Oggetto superlativo», ritorna qui nel suo carattere fantasmagorico per farsi rappresentazione di quel vissuto che potrebbe abitare i progetti su carta di Loris Rossi e Mazzoleni. Se questo discorso esperienziale viene reificato in queste vetture totemiche, simbologie dello status o dell’abitare pret a porter, le “opere totali” di Nanda Vigo, offrono una praxis più immediata, nella misura in cui il suo spazialismo trascende più linguaggi per avvolgere il visitatore in una vera e propria esperienza fisica. I suoi Cronotipi (1959), come suggerisce il titolo, si muovono sulla duplice direttiva spazio (topos) temporale (cronos), stimolando non solo la vista ma coinvolgendo lo spettatore integralmente in una dimensione ambientale.
Nella sua opera Sigarette e signore (1967), Domenico Salierno adotta invece una prospettiva che mescola teatralità, riprese documentaristiche e una voce fuori campo per portare l’attenzione sulla sostanza dell’abitare, concentrandosi sui pensieri quotidiani di una “donna senza qualità”: una contrabbandiera di sigarette di Afragola. Attraverso il ritratto di questa figura emarginata rispetto alla casta dei “signori” e alla retorica di classe, l’opera rivela un frammento autentico di vita quotidiana e accompagna lo spettatore nelle vicende giornaliere della protagonista.
Infine, la mostra si chiude con la fragilità delle lacrime in vetro soffiato, realizzate anch’esse dal duo RM, il cui soggetto è un momento di intima commozione che, però, viene esposto al pubblico. Da queste brevi descrizioni si può addurre che, se il focus della mostra ritaglia il proprio interesse in quell’interstizio che si crea tra interno, esterno, geometria, urbanistica, forma, linguaggio, vita vissuta e pathos, è fondamentale notare come all’interno della stessa architettura espositiva venga data una forte importanza alla presenza corporea del fruitore e alla sua sfera percettiva. In questo contesto, seguendo un approccio in parte duchampiano, Il Resto di Niente non propone soluzioni predeterminate. Piuttosto, apre la strada a una deriva che parte dalle suggestioni immaginifiche e si completa attraverso l’esperienza sensoriale dello spettatore e le sue connessioni emotive, in uno spazio che non precede il corpo, ma in cui questo, abitandolo, lo costruisce.
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