Il lavoro di Edward Burtynsky (Ontario, 1955) è metodico, preciso, coerente: un imponente archivio di immagini e filmati, costruito in oltre quarant’anni di carriera, che testimonia le tracce profonde e indelebili che stiamo lasciando sul nostro pianeta attraverso i processi di industrializzazione.
La mostra Burtynsky: Extraction/Abstraction, ospitata al museo M9 di Mestre e curata da Marc Mayer con progetto allestitivo di Alvisi Kirimoto, è un viaggio attento in quest’ampia produzione. Con oltre ottanta fotografie di grande formato, dieci murales ad altissima definizione e un’esperienza di realtà aumentata, l’esposizione costituisce la più grande esposizione ad oggi dedicata all’artista canadese.
Per quest’occasione, abbiamo chiacchierato con lui della sua dedizione ai temi ambientali, del ruolo dell’arte in tutto questo e del futuro del nostro pianeta.
Negli ultimi quarant’anni, attraverso la fotografia, si è concentrato in particolare sull’industrializzazione e sulle questioni ecologiche, c’è stato un evento in particolare o un momento in cui ha deciso di focalizzarsi su questi temi?
«Sì, penso che quel momento sia avvenuto circa 43 anni fa, nel 1981, quando ho iniziato a fotografare le miniere mentre facevo lavori paesaggistici e ho capito che fotografare il modo in cui stiamo modificando la terra parlava a pieno al mondo in cui vivevo. Guardavo le proiezioni di crescita della popolazione e guardavo ai progressi tecnologici e alla scala su cui stavamo producendo nei primi anni Ottanta. Guardavo a tutto questo e pensavo: “Tutto ciò non farà che crescere. Se comincio ora, un giorno il mondo mi incontrerà e capirà cosa stavo facendo”, anche se probabilmente per i primi vent’anni non è stato affatto così. Neanche mia madre non sapeva cosa stavo facendo e perché lo stavo facevo. Mi chiedeva: “Chi vuole foto di miniere? Chi vuole foto di cave? Chi vuole queste immagini?” E io dicevo: “Sono per la storia, sono per raccontare una storia.” Ho capito che ero in questo viaggio che è la vita, con una macchina fotografica, per raccontare quella storia, 43 anni fa».
Quale pensa dovrebbe essere il ruolo dell’arte in queste questioni? L’artista ha un dovere morale di essere coinvolto in questi temi?
«Penso che dipenda da ciò che l’artista vuole fare. Molti artisti non vogliono nessun tipo di narrativa associata al proprio lavoro: ci sono, ad esempio, artisti concettuali che vogliono che l’idea si difenda da sola, senza alcuna narrativa. A me piace ancora la narrativa. Voglio che ogni fotografia racconti una storia, in qualche modo. Anche se la storia non è del tutto chiara: non è una linea retta, e non è una narrativa diretta.
E penso che gli artisti abbiano un ruolo nell’espandere la possibilità dell’esperienza umana, nel tradurre la storia umana in nuovi modi. Siamo mediatori, quindi guardiamo al mondo, scegliamo cose da quel mondo, le convertiamo nel nostro mezzo, e poi permettiamo ad altri di sperimentarle. E questo vale per scrittori, pittori, fotografi, scultori, e cineasti: siamo tutti qui per diventare il mezzo attraverso cui le idee si convertono in un modo nuovo, in cui possiamo poi comprenderle. Quindi, in un certo senso, siamo tutti narratori».
Un’ultima domanda: in questo momento, si sente ottimista o pessimista riguardo al futuro?
«Beh, la vittoria di Trump non è stata molto promettente. È preoccupante perché Trump dice — non so se ci crede o no, non so se crede in qualcosa—che lui pensa che sia una farsa. Non so come possa credere che sia una farsa: come puoi guardare agli uragani che colpiscono la Carolina del Nord e la Florida —e lui ci vive— e poi dire che è una farsa?
È solo politica. È solo follia. Credo però che sia quasi troppo tardi. C’è così tanto che sta succedendo, ed è già più economico produrre in modo alternativo piuttosto che bruciare altro petrolio e carbone. Penso che continueremo a costruire un mondo migliore perché ora ha semplicemente più senso: è più economico. E il capitalismo va sempre verso ciò che è più economico».
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