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Insomnia: il racconto per immagini del legame che unì Leonor Fini e Fabrizio Clerici
Mostre
»Una coppia di fatto, nell’arte e nella vita», ha scritto di Leonor Fini e Fabrizio Clerici il Presidente del Mart Vittorio Sgarbi, ideatore della mostra insieme a Eros Renzetti, che ha molto insistito sulla maniera dei due «artisti, pittori, ma forse anche attori, esteti» che si applicava non limitandosi all’arte ma traguardando la vita. Insomnia è un percorso vertiginoso: con oltre 400 opere tra dipinti, disegni, fotografie, video, documenti, bozzetti teatrali, costumi e oggetti allestiti in ricche quadrerie e sale tematiche secondo il criterio cronologico e filologico, la mostra al Mart di Rovereto curata da Denis Isaia e Giulia Tulino è ricca, ricchissima, più delle altre che siano mai state realizzate.
La messa in scena del mondo di Leonor Fini e Fabrizio Clerici – che accoglie e offre anche una serie di approfondimenti tematici , capaci di mettere in luce le attività parallele dei due artisti dal teatro, all’illustrazione, fino alla vita mondana – muove dall’anatomia e dalle possibili metamorfosi dei corpi, che stanno alle origini del loro immaginario fantastico.
Dalle tavole anatomiche esposte emergono il gusto gotico e l’esplorazione dell’identità e della sessualità femminile, fuse con immagine mitologiche, proprie di Fini – influenzata dal Manierismo italiano, dal Romanticismo tedesco e dall’arte preraffaellita che trova nelle opere di Burne-Jones e Von Stuck – insieme all’inclinazione alla scoperta che Clerici – affascinato fin da bambino dal Tableau Pittoresque des Merveilles de la Nature di Aristide Michel Perrot – restituisce con fine calligrafia, mettendo nero su bianco, con la punta d’argento, i racconti di corpi in mutazione.
Il percorso espositivo si apre contestualizzando l’opera di Fini e Clerici e raccontandone la loro storia e quella di artisti che con loro hanno dato vita all’arte fantastica e neo-romantica, tra cui: Alberto Martini, Giorgio de Chirico, Alberto Savinio, Edmondo Passauro, Bruno Croatto, Arturo Nathan e Carlo Sbisà. Insieme alle opere di questi artisti, a cui la mostra riconosce l’avvio, nel XX secolo, di una scuola italiana del fantastico, Di Clerici sono mostrati i progetti di architettura e alcuni disegni, rarissimi, del 1928-1929, a cui vengono affiancati i primi lavori di Fini, legati a quel ritorno all’ordine a metà strada tra Realismo magico e Metafisica.
Impegnati nella ricerca di linguaggi immaginari, fantastici e visionari, Clerici e Fini erano «artisti, pittori, ma forse anche attori, esteti. Dedicavano attenzione estrema alla finitura di un dipinto come alla preparazione di una soirée mondana. Ai loro noti capolavori alternavano inviti a clamorosi balli mascherati, erano contesi da ricchi collezionisti di mezzo mondo e da grandi fotografi che li effigiavano per riviste di moda in Europa e in America», ricorda Renzetti.
Furono affiancati da un gruppo di esuli russi (Eugène Berman, Christian Bérard e Pavel Tchelitchew) artisti Neo-romantici e accostati ai surrealisti italiani (nel 1945 la libreria-galleria La Margherita di Roma presentò la prima mostra dei surrealisti italiani con opere, tra gli altri, di Leonor Fini, Fabrizio Clerici, Alberto Savinio e Stanislao Lepri). Ma, interviene Renzetti, «Il loro surrealismo era intriso di esoterismo, alchimia e glamour, elementi che li sollevarono ad antesignani di quel mix, queer, termine inglese ma inteso come strano, particolare, eccentrico». A proposito di eccentricità, una serie di fotografie (conservate all’Archivio Fabrizio Clerici di Roma) approfondisce le estati trascorse tra il 1952 e il 1957 a Tor San Lorenzo e poi a Nonza, fino agli anni ’80, in un ex convento francescano teatro di performance teatrali con costumi realizzati da loro e memorabili feste in un clima magico e alchemico.
Straordinari, fuori dagli schemi, Fini e Clerici coltivavano le loro cerchie pur dovendo fare i conti con la realtà della committenza. Il ritratto era affine all’indole di Fini, che si sostenne facendo la ritrattista, per Clerici il genere era legato prevalentemente a una sfera meno ufficiale e privata. La significativa presenza in mostra testimonia un caso unico: Dado Ruspoli, il principe Aziz, Felicita Frai, Léon Delafosse, il Principe Alfonso Pio, Elsa Morante, Valentina Cortese e Fabrizio Clerici, rappresentato in uno stile che richiama i volti ieratici dei ritratti funebri egizi di età romana del Fayyum. Fini si ispirava al Cinquecento ferrarese e all’arte fiamminga, distanziandosi dal genere di ritrattistica in voga tra gli Venti e Quaranta del Novecento, che guardava al primo Rinascimento italiano, in particolare Piero della Francesca. Uno dei più potenti archetipi della sua opera è la figura mitologica della Sfinge, metà donna e metà leone, che dipinse per tutta la vita, fino a creare un suo bestiario sacro, in cui specchiarsi e riconoscersi.
«Si erano incontrati una prima volta nel 1936 per tramite dell’amico comune Christian Dior (…) Leonor lo convinse (a diventare un pittore a tempo pieno), almeno in parte. La sua carriera professionale inizia però con a scenografia, un’attività che vedrà la sua produzione girare in tutto il mondo», ricorda Renzetti. Nella lunga vita del loro rapporto in cui «si amarono, ma come si amano due artisti, rispettandosi l’un l’altro», Fini e Clerici trovarono nella pittura il proprio ideale artistico ma si prestarono anche all’architettura, al design d’interni, all’illustrazione e al teatro. Il teatro era per loro la scatola magica in cui le visioni si compiono e vengono animate, di cui ne sono esempi scene e costumi di Clerici per l’Orpheus di Stravinskij e i figurini di Leonor Fini per Les demoiselles de la nuit dedicati a donne snelle e ferine, mascherate, come d’uso per la pittrice, da gatte. In prossimità di questo contesto il percorso offre anche uno spaccato di mondanità: il Ballo Cuevas, i balli parigini del barone Alexis de Redé e il Ballo del secolo o Ballo Beistegui ,dal nome del miliardario Carlos de Beistegui (che, nel 1951, inaugurò con una festa in maschera la sua dimora veneziana, Palazzo Labia, a cui Fini e Clerici si presentarono con vestititi progettati da loro stessi e scegliendo la maschera del Re Luna lui e di un Angelo nero lei).
A proposito di pittura, «nelle opere di Clerici, così come in quelle di Leonor Fini, ci sono diversi livelli di lettura, per decifrarli bisogna avere nozioni di esoterismo, iconografia e simbologia antica». Al Mart sono esposti alcuni tra i quadri più noti della maturità di entrambi, a proposito dei quali il poeta Jean Cocteau ha parlato di un realismo irreale condiviso. Nei dipinti di Fabrizio Clerici le reminiscenze di un’archeologia ideale fatta di labirinti, cripte e ruderi, deserti e silenziosi o abitati da personaggi di fantasia, si articolano sulla tela attraverso il disegno architettonico e una pittura liscia e dettagliata. In Fini invece la mitologia entra in contatto con elementi minerali che caratterizzano i luoghi in cui strane figure, a volte umane a volte mostruose, sembrano vivere una dimensione onirica e fiabesca. Non erano né astratti né figurativi, si mossero sulla scia del meraviglioso, che artisti della generazione successiva seguirono, come Enrico Colombotto Rosso, Enrico d’Assia e Domenico Gnoli.
Il percorso espositivo si completa con una ricca presenza di oggetti e creazioni – come le mani-lampade realizzate da Andra Spadini su disegno di Clerici, pannelli decorativi per l’ascensore di Casa Cicogna, carta da parati e paraventi – che contribuiscono ad alimentare il mondo visionario e colto di Fabrizio Clerici e Leonor Fini, e si conclude con l’eredità dei due artisti: Mark Romanek (quando diresse il video del singolo Bedtime Story (1994) citò quadri degli artisti, Michel Henricot, allievo e assistente di Leonor Fini, ed Eros Renzetti, allievo di Fabrizio Clerici e Leonor Fini, a lungo assistente di Clerici e oggi titolare dell’omonimo Archivio.
Un importante spazio è lasciato a Stanislao Lepri, che tra Fini e Clerici occupò un posto importante. Lepri è spesso ricordato per il ménage à trois con Fini e con Konstanty Jeleński: entrambi omosessuali, decisero di legarsi Leonor Fini e comporre con lei una “famiglia ideale”, libera da stereotipi e sostenuta da un amore amicale. Anche Fini e Clerici «si amavano, ma come si amano due artisti, rispettandosi l’un l’altro». Ciò che è evocativo, onirico e fluttuante e favoloso in Leonor Fini, è saldo e produce incubi e allucinazioni in Lepri. Ma, proprio perché – l’abbiamo premesso al principio – la maniera di Fini e Clerici non li limita all’arte ma traguarda la vita, non è soltanto la ripresa della traduzione figurativa a far vivere Insomnia nei nostri giorni, bensì lo sono la fluidità di genere e il poliamore.