Fino al 21 gennaio 2021, alla galleria romana T293, sarà possibile visitare “Bazaar, a Recollection of Home”, grandiosa personale dell’artista afghano-canadese Hangama Amiri. Attraverso un utilizzo sapiente di diversi materiali tessili, l’artista esplora temi complessi con audacia ed eleganza, realizzando installazioni monumentali la cui energia vitale ci atterrisce non appena varchiamo la porta della galleria trasteverina.
Cresciuta in Canada ma afghana d’origine, dove ha vissuto fino ai sei anni d’età, Amiri attua un’attenta “ri-tessitura” dei propri ricordi d’infanzia associati al bazar, luogo che lei stessa altera, offrendo agli spettatori «Un senso del luogo e del tempo oltre ad una consapevolezza del presente politicizzato». Sulle ampie pareti delle sale della galleria, vengono ricreati degli ambienti commerciali afghani solitamente riservati alle donne, in cui l’osservatore viene invitato non solo a prendere parte ai ricordi dell’artista, ma anche a partecipare a un complesso quanto imprescindibile ragionamento sociopolitico.
L’artista propone quindi un punto di vista personale sulle tradizioni afghane, attingendo direttamente alla propria esperienza e ai propri ricordi d’infanzia, quando era una bambina che passeggiava per le strade di Kabul con la propria famiglia. Temi come il femminismo, la globalizzazione e le norme di genere vengono raccontati attraverso una celebrazione delle donne che risuona potente, dando voce alle donne afghane e alla loro inesauribile temerarietà.
In occasione della mostra alla galleria T293, abbiamo raggiunto Hangama Amiri che ci ha raccontato con generosa onestà come prendono forma le sue opere e la loro intricata simbologia, la complessità del concetto identitario e le donne della sua vita.
Hai intitolato la tua personale alla galleria T293 “Bazaar, a Recollection of Home”, dove il bazar ci viene descritto come il luogo in cui sono custoditi alcuni dei tuoi più cari ricordi da bambina a Kabul. Ti andrebbe di raccontarci i tuoi ricordi più dolci – o più difficili – associati a questo luogo per te così simbolico?
«Non ho vissuto in prima persona il regime talebano al potere, ma io e la mia famiglia siamo diventati rifugiati poco dopo l’attacco a Kabul nel 1996. Questo è il motivo per cui i ricordi che associo al bazar sono per lo più positivi. Ricordo soprattutto quando andavo per negozi con mia madre, le zie e i cugini e festeggiavo con loro durante il nuovo anno: Nawrooz e Ramadan. Erano quelle occasioni celebrative in cui uscivo e compravo vestiti e giravo per ore. Quelli erano davvero bei ricordi.
Quando ero piccola a Kabul c’era anche un piccolo bazar e un mercato accanto al quartiere di Macroyan-e Kohna in cui sono cresciuta. Mio zio aveva un negozio lì, dove lavorava come sarto. Come abitudine mi fermavo ogni mattina per salutarlo mentre andavo a scuola. Questo è diventato parte del mio tragitto quotidiano verso scuola, quindi suppongo che sia per questo che mi sono affezionata allo spazio del bazar. Lo shopping mi era così familiare e così mi sono innamorata di quella routine».
Cotone, chiffon, seta, pelle di camoscio e tessuti afghani ricamati a mano: i materiali che utilizzi sono moltissimi ma anche incredibilmente specifici. I tessuti da te impiegati sono dettati da un’istintività o rispondono alla necessità di dare voce a una tua nostalgia del passato? Hai una ritualità del procedimento che ti porta alla selezione dei materiali?
«Penso che sia istinto e nostalgia. Ciò che viene prima è il mio bisogno di una certa consistenza o superficie, che sono disposta a trovare e cercare. Poi li cerco di persona a New York City o online. Scelgo di lavorare con tessuti culturalmente specifici perché sono insostituibili e comunicano con i molteplici luoghi che ho visitato. Quindi, quando includo un ricamo fatto a mano in Afghanistan nel mio lavoro, è perché deve essere un tessuto ricamato in Afghanistan. Nient’altro può riprodurre quello sguardo. È così unicamente fatto a mano e il lavoro necessario per realizzarli non può essere imitato da una macchina. Quando sono attratta da diversi modelli e trame che non riesco a trovare qui negli Stati Uniti, rivolgo la mia attenzione a quelli che sono simili agli originali. Se un tessuto sembra del Tagikistan o pakistano, lo colleziono.
Prima di scegliere una tavolozza per la maggior parte dei miei pezzi, inizio con disegni o con dipinti a guazzo colorati per un progetto. Quando vado in questi negozi di tessuti porto con me gli schizzi per scegliere e selezionare i tessuti relativi ai colori che ho dipinto su carta. A volte le cose non sono rigorose come il disegno, ma il processo diventa più interessante quando nuovi materiali, come il tessuto trasparente o lo chiffon, cambiano la lettura di un colore».
La frammentazione è trauma, quello che le donne afghane hanno dovuto affrontare, causato dal profondo senso di immobilità delle loro vite. Ma nelle tue opere l’uso della frammentarietà materica corrisponde anche a una frammentarietà identitaria? Cosa è significato – e cosa significa per te tuttora – essere una donna afghana in un contesto occidentale?
«La frammentazione è il motivo per cui scelgo più tessuti e non solo tessuti provenienti dall’Afghanistan. Uso tessuti dal Tagikistan, dai paesi dell’Asia meridionale e dai paesi di cui conosco la cultura e parlo la lingua. È emozionante per me unire questi diversi aspetti della mia identità attraverso materiali provenienti da più contesti. Questa frammentazione e unione di materiali diversi riecheggiano i miei sentimenti di spostamento e condizione frapposta nel contesto occidentale – non essendo interamente né da qui, né là. A volte mi sento più vicino al paese in cui vivo a causa di quanto tempo ho trascorso qui rispetto al mio paese d’origine. In fondo, però, mi sento ancora una straniera. Come artista donna afgana, mi sento privilegiata a parlare a distanza delle condizioni sociali e politiche dell’Afghanistan. È anche un modo per me di entrare in contatto con altre donne afghane qui e sviluppare una comprensione migliore di una diaspora afghana».
Tra le opere esposte in mostra ci sono diversi elementi che fanno riferimento alla cura della bellezza e dell’estetica femminile, come saloni di bellezza, gioiellerie, boutique di moda. Passeggiando tra le stoffe, mi è sembrato predominante il tema della riappropriazione del corpo femminile, veicolo di riaffermazione personale identitaria. Come rielabori nozioni proprie del femminismo afghano contemporaneo all’interno delle tue opere?
«Le donne afghane, purtroppo, vivono ancora come figure secondarie in una cultura in cui gli uomini vengono prima di tutto. Anche dopo il regime talebano, le donne hanno lottato per sposare chi volevano, ricevere un’istruzione ed essere completamente indipendenti. Esplorare quegli spazi delle lotte delle donne in Afghanistan è ciò di cui il femminismo può parlare. La liberazione delle donne è ancora una questione enorme, insieme alla sicurezza, protezione e libertà di parola delle donne. Questi sono bisogni fondamentali di cui le donne afghane sono spesso spogliate e voglio usare la mia arte come strumento per creare mondi in cui si sentono a proprio agio».
Le donne (e in particolare le donne afghane) sono le protagoniste della mostra: personalità forti e resilienti che con coraggio si fanno strada nel mondo facendo sentire la propria voce. Quali sono state le figure femminili a cui tu ti sei ispirata nel corso della tua vita?
«Ci sono molte donne che mi hanno ispirata durante la mia vita. Mia madre, tuttavia, è stata il mio più grande modello. Mi ha sempre incoraggiato come artista e di questo le sono davvero grata. Non sa molto di arte, a dire il vero, ma quando faccio mostre o creo lavori la penso sempre. Spesso mi chiedo: “Cosa dirà mia madre di questo pezzo?”. Considero la sua voce in particolare quando penso alle donne afghane. Anche mia sorella mi ha ispirata molto. Anche lei è un’artista e mi sento molto privilegiata ad averla come migliore amica e sorella, con cui posso avere conversazioni significative sull’arte. È una regista che documenta la vita delle donne afghane di tutti i giorni, mentre e io documento la realtà attraverso una lente basata sulla memoria».
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