Il dio romanico Giano è la divinità degli inizi, siano essi materiali o non. Presiede passaggi, soglie, porte, ma anche il cominciare di una nuova impresa, di una nuova vita e di un nuovo tempo mitico. Per questo, Giano viene rappresentato con due volti: uno rivolto al passato e uno al futuro. Quale divinità poteva perciò essere più adeguata ad ispirare Janus, la prima esposizione della Berggruen Arts & Culture nella nuova sede di Palazzo Diedo?
Lo spazio, infatti, con i suoi oltre 4.000 metri quadrati di superficie, vuole proporsi come un tempio dell’arte contemporanea a Venezia, ma, al tempo stesso, come un luogo dove ritrovare i valori del proprio passato.
Per questi fini, la Berggruen Arts & Culture e il Berggruen Institute hanno sviluppato una proposta ad hoc di mostre, eventi, proiezioni, performance e residenze d’artista, iniziando proprio con Janus, inaugurata il 20 aprile e visitabile fino al 24 novembre 2024.
L’esposizione, curata da Mario Codognato e Adriana Rispoli, unisce lavori permanenti e non di 11 artisti internazionali: Urs Fischer, Piero Golia, Carsten Höller, Ibrahim Mahama, Mariko Mori, Sterling Ruby, Jim Shaw, Hiroshi Sugimoto, AYA TAKANO, Lee Ufan e Liu Wei.
Così, grazie agli interventi di questi maestri, gocce di vetro soffiato, sirene manga, serpenti e creature marine si fanno spazio negli ampi saloni settecenteschi, andando a fondere elementi tipici della tradizione con nuove, interessanti interpretazioni.
Questi tocchi contemporanei si integrano alla perfezione nello scheletro storico del palazzo. Ne sono la prova incontrastabile la Scala del dubbio (opera funzionale concepita da Cartsen Höller trasformando una rampa di scale incompiuta in una struttura completa) e Three Little Birds, di Ibrahim Mahama, stucco realizzato in collaborazione con la fondazione ghanese Red Clay.
A colpire, però, non sono solamente gli interventi permanenti, ma anche le opere temporanee presentate a palazzo. Tra queste, spiccano in particolar modo i bellissimi lavori di Hiroshi Sugimoto: fotografie della serie Opticks (2018 – 2022), realizzate prendendo ispirazione dalle ricerche di Isaac Newton su luce e colore. Attraverso una vera e propria indagine scientifica, Sugimoto si sofferma sui modi in cui il medium fotografico riesce a cogliere anche l’essenza di forze invisibili ad occhio nudo. Le opere che ne conseguono, più che scatti fotografici, sembrano quadrati di luce e ritagli astratti di orizzonti lontani.
Anche Relatum – The Notion of Stone (2024), di Lee Ufan, sembra voler porre davanti agli occhi dello spettatore queste forze instancabili e invisibili. L’ampio masso al centro della sala, infatti, si impone con tutta la sua pesante presenza, concretizzando di fronte a noi non solo la forza di gravità, ma anche la poeticità degli elementi naturali.
Piero Golia, poi, unico italiano in mostra, presenta Concrete cube with glass chandelier (2024), un cubo di calcestruzzo con un elegante lampadario in vetro incastrato al suo interno. L’idea è semplice: immergere un oggetto nel cemento fino a che questo non si solidifichi, intrappolandolo permanentemente. In questo modo, l’oggetto perde la sua funzione originaria e diventa pura scultura.
In questo caso, il fatto di aver scelto un lampadario in vetro rende il tutto particolarmente espressivo, quasi come se l’attimo della caduta dal soffitto di Palazzo Diedo fosse per sempre congelato nel materiale cementizio. O si tratta, forse, di una metafora della caduta della Serenissima, bloccata dal calcestruzzo ad un soffio dal pavimento?
In ogni caso, il lavoro, nella cornice di questa nuova apertura, non può che farci riflettere sulla delicata situazione della laguna veneziana, in bilico precario tra gli sfarzi del passato e la miriade di nuove fondazioni e gallerie giunte in città per approfittare (per qualche mese) della vetrina della Biennale.
Con Janus, Palazzo Diedo cerca di allontanarsi da questa tendenza e di integrarsi nella storia veneziana. Certo, però, sarà solo il futuro a testare queste promesse.
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