Il concetto dello straniero è stato, fin dall’inizio della sua carriera negli anni ’60, un elemento significativo nelle opere di Ernest Pignon-Ernest, maestro nell’esplorare i destini di tutti quegli individui che rompono con le convenzioni o che sono miti da far rivivere: Pier Paolo Pasolini, Arthur Rimbaud, Antonin Artaud e Jean Genet, per esempio, ma anche le poetesse – rispettivamente russa e iraniana – Anna Akhmatova e Forough Farrokhzad che a Venezia, nell’Espace Louis Vuitton, in occasione di Je Est Un Autre, arricchiscono il suo repertorio di migranti, viaggiatori e poeti.
Il titolo della mostra, curata da Suzanne Pagé e Hans Ulrich Obrist e ideata per lo spazio veneziano su invito della Fondation Louis Vuitton, rimanda all’affermazione che ricorre in due lettere della Corrispondenza di Arthur Rimbaud: quella del 13 maggio 1871 a Georges Izambard – professore di Rimbaud al collegio, ma anche amico e confidente che lo iniziò alla letteratura – e quella immediatamente successiva a Paul Demeny, amico di Izambard, a sua volta poeta, risalente al 15 maggio 1871.
C’è qualcosa di sconvolgente nell’asserzione rimbaudiana, qualcosa che provoca una profonda alterazione dell’equilibrio non solo linguistico ma anche ontologico: Rimbaud non ha infatti detto «Io sono un altro», immedesimandosi in un’alterità, ma «Io è un altro», mettendo in discussione la soggettività in quanto tale, che dunque non è più un una con se stessa, ma scissa e frammentata, al di fuori di sé, nell’Altro che la spossessa e la spodesta. Chi è, allora, l’io? E chi è l’altro? Per Lacan, lettore di Rimbaud, affermare «Io è un altro» significa ammettere che l’origine del soggetto non è l’interiorità, bensì il contatto costante che l’Io ha con l’Altro, gli incontri con l’esterno che, uno dopo l’altro, si stratificano e formano l’identità stessa. In altre parole, l’Io non è un nucleo definito, ma il frutto di una stratificazione.
Senza entrare nel terreno della psicanalisi, lo spunto lacaniano della stratificazione diventa interessante in relazione al rapporto specifico che le opere di Ernest Pignon-Ernest hanno con la dimensione spazio-temporale, come fossero materia viva soggetta alla tragica esposizione al cambiamento, che ne condiziona l’esistenza, il degrado e la performatività.
Oggi considerato tra i padri fondatori della street art nonostante i suoi esordi anticipino di diversi decenni le prime forme d’arte oggi così identificate, Ernest Pignon-Ernest disegna, a grandezza naturale, corpi capaci di insinuarsi tra i muri, anche quelli più impenetrabili: fin dai sue esordi ha del resto saputo conciliare un impegno etico senza compromessi con un’espressione artistica in cui combina maestria tecnica, onestà esistenziale e capacità di abitare poeticamente il mondo – termine, l’abitare, nient’affatto casuale e che, anzi, si rifà ancora una volta a Je Est Un Autre, che indica come il soggetto erri nell’universo dell’alterità, a contatto con la presenza dell’Altro che, appunto, abita il sé e che agisce in modo imprevedibile e perturbante, al di là della propria consapevolezza.
Ogni volta che Pignon-Ernest esplora i destini di questi individui si assume un rischio, lo stesso che quando si ostinava a trovare il luogo e la formula perseguitava Rimbaud che, certamente e non poteva essere diversamente, abita la mostra veneziana, che risplende in un trionfo di urban ed esistenzialismo. Insieme a lui – poeta veggente «mediante un lungo, immenso e ragionato sregolarsi di tutti i sensi», che attraversò ogni forma di sofferenza, di amore e follia per raggiungere i più reconditi abissi – trova spazio sulle pareti trasformate nei muri scrostati di una qualsiasi città, Antonin Artaud, poeta totale e teorico del teatro della crudeltà – inteso come un linguaggio iniziatico, magico e tribale, in cui le parole vengono elaborate e pensate nella loro originale potenza segnica e sensitiva – che ha voluto mettere a nudo conflitti sociali del mondo e le contraddizioni della vita reale per farli sentire e vivere realmente sulla pelle dello spettatore.
C’è anche Jean Genet, scrittore, drammaturgo e poeta francese, fra i più discussi del ‘900 – nel Diario del ladro (1949), raccontò la storia di un sé stesso ladro, omosessuale e marginale nell’Europa degli anni ’30 – che una vita vagabonda fino alla morte, sempre schierato dalla parte degli oppressi, dei deboli, dei poveri dimenticati dalle ricchezze del mondo. Ci sono, e sono inediti, anche i ritratti della poetessa russa Anna Akhmatova, morta a Mosca nel 1966 dopo una vita tragicamente segnata dal regime sovietico, e della poetessa iraniana Forough Farrokzhad, figura significativa della rinascita della poesia persiana e oggi simbolo della voglia di vivere e di libertà delle donne iraniane.
Je Est Un Autre è una mostra in situazione, intrisa di spirito etico, giustiziera, ovvero attiva, perché non si limita si limita alla semplice espressione, ma eccita e stimola: «In un momento storico in cui il linguaggio verbale è tutto convenzionale e sterilizzato (tecnicizzato) il linguaggio del comportamento (fisico e mimico) assume una decisiva importanza». Parola di Pier Paolo Pasolini, che Ernest Pignon-Ernest ci restituisce sotto forma di Pietà drammatica e magnetica, capace di riassumere in sé l’icona del poeta intellettuale mentre, tenendo in braccio come un Cristo morto il suo doppio-vittima, sembra chiederci che cosa abbiamo della sua morte.
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