è un artista franco-svizzero tra i più interessanti della sua generazione: esploratore riflessivo del cambiamento della natura e dell’impatto che l’attività umana ha su di essa, affronta attraverso la sua pratica artistica le urgenti preoccupazioni ecologiche. Formatosi nella cerchia di Olafur Eliasson, si è fatto apprezzare in Italia con la mostra All We Ever Wanted Was Everything and Everywhere ospitata al MAMbo di Bologna nel 2019. Combinando installazione, scultura, film e fotografia, i progetti dell’artista si occupano spesso di spazi liminali, dai siti di estrazione industriale alle caldere vulcaniche, dai remoti campi di ghiaccio ai terreni dei test nucleari.Posti remoti, dimenticati, al limite della capacità di sussistenza per l’uomo, nei quali avvengono i grandi cambiamenti della terra, i nuovi posizionamenti geo-politici e la devastazione climatica.
La mostra in corso alla galleria Perrotin (fino al 1 giugno 2024) è di grande impatto, composta da sculture e opere video. Queste ultime sono in grado di catturare la totale attenzione dello spettatore: come And Beneath It All Flows Liquid Fire, che raffigura la coesistenza di elementi opposti come l’acqua e il fuoco in una fontana ardente, e Panchronic Garden, un’installazione immersiva che evoca la nostra intricata storia di estrazione dalla litosfera e dalle vaste foreste del Carbonifero che coprivano il pianeta circa trenta milioni di anni fa.
Proprio Panchronic Garden (2022) dà il titolo alla mostra che incapsula molteplici temporalità riportando il visitatore in un stato ipnotico, sommerso, di spettacolare e drammatica bellezza. Un giardino dell’Eden di sinistra voluttà che ci circonda, che si rivela maestoso, ma profondamente ambiguo. La parola “pancronico”, come spiega nel testo critico Stéphane Malfettes, si riferisce a un organismo animale o vegetale che presenta una forte somiglianza morfologica con una specie che dà vita a un giardino del terzo tipo, dove le felci ancestrali ricostituiscono un biotopo del Carbonifero, l’era geologica in cui si formò il carbone. Oltre trecento milioni di anni fa, le nostre attuali riserve di combustibili fossili erano foreste rigogliose. Con il suo pavimento e le sue pareti in fibra di carbonio a specchio infinito, la luce infrarossa e il vortice sonoro, il terrario di Charrière abbraccia l’artificialità della nostra concezione della natura. Il naturale e l’artificiale diventano tutto uno. Si fondono magistralmente lasciandoci attoniti in questo spazio atemporale.
Tecnicamente l’artista utilizza dei sensori collegati ai sistemi informatici generando paesaggi sonori che offrono uno sguardo sul sofisticato ambiente sensoriale delle piante. I dispositivi high-tech rivelano come tali organismi viventi percepiscano gli stimoli dell’ecosistema in cui vivono, una modalità di comunicazione soprannaturale che libera questi eroi della preservazione planetaria dal loro consueto silenzio.
Interessanti sono anche gli oggetti chimerici che ci osservano dalle profondità del tempo, appartenenti alla serie A Stone Dream of You (2024) e disposti sul pavimento della galleria, composti da minerali (rocce vulcaniche e ossidiana) trovati in Messico. Come degli estetizzanti cimeli, raccontano di fenomeni geotermici millenari; movimenti del mantello terrestre, tremori sismici ed eruzioni di magma.
Anche in questo progetto emerge l’oscuro fascino dei materiali utilizzati dall’artista che rientrano sempre in uno scenario rivelatore di mondi di vita fossilizzati e conturbanti atmosfere future. Secondo Julian Charrière infatti, “l’arte diventa uno strumento per esplorare grandi astrazioni”: in effetti la mostra trasporta in un’atmosfera evocatrice di non-luoghi che ricordano la land art dei fine anni Sessanta, primordiale e visionaria.
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