La prima mostra personale dell’artista spagnola June Crespo, “Acts of pulse”, presso la galleria P420 a Bologna risulta tutt’altro che di semplice e veloce lettura. Il lavoro esposto nelle due sale della galleria invita a una visita paziente e attenta che da uno sguardo globale avanzi curiosa sino a captare le celate stratificazioni e dinamiche negli e tra gli elementi. In mostra, si manifesta una irriducibile complessità espressa sia dalle singole opere presenti, sia dalla loro relazione nello spazio. Se infatti si volesse compiere uno sforzo e condensare in un unico termine “Acts of pulse”, probabilmente la riflessione suggerirebbe l’aggettivo “plurale”. Non solo per la capacità della parola di comunicare una caratteristica delle eterogenee parti della mostra – individuabile in modo più o meno esplicito – ma soprattutto per la difficoltà di risolvere la complessa articolazione.
Una prima declinazione plurale la si rileva in modo alquanto evidente dal titolo stesso, “Acts of pulse”. Innanzitutto la parola acts declina un singolo atto in svariate e diversificate azioni. Se poi analizzata nel suo rapporto con il verbo pulsare, essa mette in luce non solo plurali movimenti pulsanti ma anche le varie connotazioni del termine. Come scrive Marinella Paderni nelle prime righe del testo introduttivo alla mostra: «La parola inglese pulse […] indica un impulso del corpo (un battito cardiaco, il polso del cuore), un ritmo (come quello musicale) e anche una forza, intesa nel suo significato di energia vitale».
Compiendo poi un ulteriore passo, la critica associa la moltitudine insita nel termine al linguaggio scultoreo. Come il verbo pulsare racchiude plurali declinazioni di senso, anche la forma di ciascuna opera non produce un significato unico e chiuso ma rimane sempre mutevole e aperta in quanto espressione della «natura proteiforme della materia». Come insegna la biologia, quest’ultima si caratterizza per un comportamento autopoietico; e tale caratteristica dei sistemi complessi viene letta in relazione al lavoro di June Crespo.
Secondo Marinella Paderni, l’artista evoca la vitalità della materia, cioè la proprietà di rivelarsi con un atto di creazione prodotto dal proprio interno e dare origine a nuove forme complesse e omogenee pur mantenendosi invariata nella sostanza. Tale caratteristica della materia di contenere in una organizzazione plurali espressioni si dimostra infatti calzante per riferirsi ad alcuni aspetti della pratica artistica di Crespo. Essa diviene espressione dei percorsi compiuti dal suo pensiero durante il processo di creazione e quindi peculiarità della natura dei suoi lavori.
Le sue opere mostrano come ogni oggetto contenga in se stesso il potenziale di trasformarsi e divenire – o meglio già essere – qualcosa di altro. In questo modo, esse svelano un continuo lavorio mentale che virtualmente legge plurime immagini in una forma apparentemente finita. Sono azioni pulsanti della mente e della materia scultorea che producono opere intese come meditazioni sulla instabilità e sulla mutevolezza intrinseche nel reale. Una continua trasformazione identificabile come processo sostanziale della sua opera.
Nelle parole di Paderni: la forza di June Crespo risiede nel «Creare una figura percependo nella materia le spinte che la abitano, […], l’inespresso delle cose. Il lavoro dell’artista esplora la tensione del mondo a rimanere misterioso, a voler essere non finito o ascrivibile a un’unica, semplice sembianza». E allora la forma in bronzo di una sella di cavallo della serie Acts of Pulse (2022) diviene virtualmente petalo, palpebra e linea della lingua sul palato. Allo stesso modo, nella prima sala No Osso (Occipital) (2021) e Óptico (2022) stanno potenzialmente compiendo un percorso per divenire piccole parti di corpo ma senza arrivare a compiersi definitivamente. «I try to accompany the right forms until they become something else. Until they become one thing and many things at the same time», aveva affermato la stessa artista.
Le opere presenti in Acts of Pulse appartengono a una pluralità di serie realizzate nell’ultimo anno. Queste sono composte da elementi differenti e contrastanti che insieme emergono in una complessa ma organica struttura. Le dicotomie di calori (caldo e freddo) e consistenze (soffice e duro) si risolvono combinandosi in un gioco di rimandi che non solo scuote e anima le opere ma si dilata nelle loro connessioni nello spazio. In Dividual (3) (2022) – opera posta nella seconda sala ma visibile dall’entrata della galleria grazie a uno scorcio ben studiato – un morbido sacco a pelo viene racchiuso dalla dura e ruvida vetroresina originando quella che pare essere una immagine lontana di una imponente colonna di marmo. Elemento verticale che nella prima sala si trasforma assumendo invece una connotazione leggera e sospesa. Avvicinandosi alle opere si intravede il lavoro minuzioso di una mano calda intenta a cucire insieme pezzi di stoffe attentamente selezionate.
Con la cura prestata da un occhio assorto si possono poi notare piccoli resti di argilla dimenticati dal processo di produzione. Sono residui lasciati appositamente che, dal macro al micro, evocano ancora una volta il costante percorso di continuativa trasformazione della materia. E allora la mostra racconta un mondo completamente privo di teleologia in cui tutto rimane sospeso e aperto a ciò che potrebbe accadere e a cosa potrebbe diventare.
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