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L’impronta continua del fare di Manuele Cerutti in Collezione Maramotti
Mostre
«Adorò colui che generò – spiega la Direttrice della Collezione Maramotti Sara Piccinini – è la traduzione di QUEM GENUIT ADORAVIT, che Manuele Cerutti ha scelto come titolo della mostra dopo aver incontrato questa iscrizione sul dipinto della Madonna della Ghiara, conservato nella Basilica della Beata Vergine della Ghiara a Reggio Emilia, che ritrae la Vergine Maria inginocchiata all’aperto con mani giunte rivolta in preghiera al Gesù Bambino che è seduto a terra su un drappo».
L’ambiguità della traduzione – chi è l’adorante e chi è l’adorato? – è indice della possibilità, del tutto esperienziale, di più interpretazioni e più letture (da Filottete, l’arciere che morso da un serpente a un piede rimase 10 anni sull’isola di Lemno curando la sua ferita; a Enea, Anchise e Ascanio scolpiti da Gian Lorenzo Bernini, o a San Cristoforo, per citarne alcuni) di quell’umano protagonista del ciclo di opere ora in esposizione rassomigliante a Manuele Cerutti.
Rassomigliante, così tanto, da essere lui. Eppure, non sono autoritratti: Cerutti usa infatti la propria figura – che senza dubbio è quella di cui ha maggior conoscenza – come un carattere universale sottoposto a un costante processo di verifica e di moltiplicazione, di trasformazione e di deformazione (cognitiva e formale, ben visibile), che lo rendono vulnerabile. Come potrebbe essere un padre, per esempio, in una determinata situazione. Del resto, Cerutti, è un padre ed è proprio l’esperienza della paternità, autobiografica, intensa, ad aver ispirato la sua attenzione verso la creazione di un’entità che assume, inaspettatamente, sembianze infantili e di cui ambisce la conoscenza, che è primigenia e asimmetrica e precede ogni definizione.
La creazione cui assistiamo in tele come Meriti e colpe, La traversata e Necessaria seconda capriola – le prime due di grande formato e tutte tre esposte nella Pattern Room – è inconsapevole, forse involontaria, e ha origine da una ferita su una gamba, di cui il soggetto universale ha costante cura, anche con un fare quasi magico, un po’ sciamanico, servendosi di erbe naturali (Ramo delle confluenze) o avvolgendola con un telo (Perdere l’eroe conservare la ferita), perché la ferita è feconda, è materia germinativa che si dà come insorgenza di altre vite e direzioni. Siamo nel regno, allegorico e mitologico, della partenogenesi, ovvero un tipo di riproduzione in cui la cellula-uovo è slegata dall’atto fecondativo che si richiama, per consonanza, a un metodo di riproduzione agamica, che in botanica prende il nome di tecnica della margotta – che consente di ottenere nuove piante scortecciando una parte di un ramo e racchiudendolo, dopo averlo circondato di terra, in un telo per pacciamatura di plastica nera: lo stesso che vediamo annodato intorno alla gamba dell’umano raffigurato (anche) in Tutte le mani dormono – l’ultimo lavoro in termini di realizzazione, che ha il sapore di una contemporanea Deposizione.
Guardare queste opere, le tele della Pattern Room e in ingresso della Collezione la quadreria di disegni «non bozze preparatorie – avvertono Sara Piccinini e Manuele Cerutti – ma possibili espansioni di un racconto», significa saper passare da un livello all’altro distinguendo, senza distruggerli, tutti gli infiniti strati che compongono ciascun lavoro. Umano, minerale, vegetale, animale e paesaggistico – che non è più, quest’ultimo, solo interno allo studio ma comprende cavalcavia, rovine industriali, terre incolte, sottopassi di cemento dei dintorni di Torino, dove Cerutti vive – viene, sulla tela, a costituire il visibile. Sfogliare queste immagini, strato dopo strato, comporta partecipazione e distacco, sensazioni di meriti e di colpe, tentativi di recupero e di rinunce. Si procede come l’umano dell’intima china su carta intitolata Lambda: asimmetricamente, da un livello all’altro, lasciandosi inciampare nello stupore per creare sempre nuove relazioni con il proprio stare nel mondo.