Tra le numerose chicche vicentine degno di nota è Palazzo Leoni Montanari, sontuosa dimora barocca che si stacca dalla tendenza classicista di Vicenza. Intorno al 1676 è fatto edificare vicino alla chiesa domenicana di Santa Corona (all’epoca tra i fulcri religiosi e culturali del centro cittadino) da Giovanni I Leoni Montanari, nipote da parte materna di Bernardino Montanari, produttore e mercante tessile. La fortuna di questo casato risale appunto al nonno Bernardino, che essendo senza eredi maschi sceglie il nipote Giovanni per la sua abilità anche nel portare avanti l’ambìto progetto di ottenere un titolo nobiliare, scopo che sarà raggiunto nel 1693. Il Palazzo, dopo la prima planimetria attribuita all’architetto Carlo Borella, da fine ‘600 vedrà al lavoro numerosi artisti seguaci della poetica barocca salvo poi subire durante l’Ottocento modifiche neoclassiche ed eclettiche. Nel 1908, dopo vari passaggi di proprietà, arriva alla Banca Cattolica Vicentina e oggi fa parte del patrimonio del Gruppo Intesa Sanpaolo che nel 1999 lo ha trasformato nella prima sede delle Gallerie d’Italia: queste grazie alle successive aperture di sedi museali ed espositive in Palazzi storici della Banca a Milano, Napoli e Torino rappresentano il più importante polo museale privato italiano e una risorsa culturale di ottima qualità a livello mondiale.
La sede di Vicenza con annessi laboratorio di restauro e biblioteca specialistica custodisce prestigiose collezioni tra cui al piano nobile quella dedicata all’arte veneta del Settecento con opere preziosissime. Partendo da una di queste festeggia i primi venticinque anni di feconda attività con La caduta degli angeli ribelli. Francesco Bertos, mostra originalissima e di notevole valore scientifico con più di 40 opere (alcune delle quali mai esposte) provenienti da importanti musei nazionali e internazionali e da collezioni private a cominciare da quella della Banca.
Curata da Monica De Vincenti e Fernando Mazzocca, la singolare e intrigante esposizione rappresenta un unicum che fino al 9 febbraio 2025 fa conoscere ai visitatori Francesco Bertos, straordinario ed eccentrico scultore di cui nel titolo della mostra è citata l’opera più prestigiosa e spettacolare ubicata a coronamento del percorso espositivo: quasi una salita paradisiaca della scala della bellezza fino all’apice. Bertos, nel primo ‘700, è molto stimato dai contemporanei soprattutto di alto rango, cade poi nell’oblio complice anche il rifiuto del Barocco da parte del successivo Neoclassicismo: riguadagnato recentemente il riconoscimento della paternità de La caduta degli angeli ribelli, è giustamente rivalutato nel mondo dell’arte. Nel passato, invece, tale capolavoro è stato attribuito erroneamente ad Agostino Fasolato, figura di non facile identificazione per la presenza di omonimi in una famiglia di scultori padovani attivi tra ‘600 e’700 e citato in scritti relativi alla locale fraglia (termine con cui all’epoca sono definite le corporazioni di arti e mestieri a Venezia, Padova e Vicenza) dei tagliapietra.
Cosa si sa dunque di Francesco Bertos che nel 1740 l’anonimo autore di Descrizione (due pagine manoscritte in cui sono elencate le numerose figure che compongono quattro gruppi di sculture, due in marmo e due in bronzo, realizzate dallo scultore negli anni ’30 per il maresciallo Johann Matthias Von der Schulenburg, eroe della guerra contro i Turchi) definisce “scultor di Padova, Uomo celebre, e non solo nell’Arte di simil Genere”? Anche se questi quattro gruppi non sono ancora identificati con sicurezza, tuttavia il giudizio di eccellenza concorda con altre simili testimonianze sul fascino esercitato dalla strabiliante arte di Bertos, capace di appagare gli esigenti e raffinati gusti dei suoi committenti, adusi a complicati e stimolanti esercizi intellettuali propri di quell’epoca. Per tali sublimi qualità l’Inquisizione si “interessa” a Bertos sospettando un intervento sovrumano e per la precisione un patto con il diavolo salvo poi ricredersi dopo averlo visto all’opera. Al riguardo si può notare come nel Cristianesimo occidentale dopo il Concilio di Trento la Chiesa Cattolica diffidi di opere come queste destinate al collezionismo privato e non al culto, mentre nel Cristianesimo orientale la Chiesa Ortodossa che ha vissuto l’iconoclastia, quindi la distruzione delle icone che sono immagini sacre, ne definisca alcune acheropite, non fatte da mano umana, ma da intervento divino: un Cristianesimo sfaccettato a seconda dei retroterra in cui ha radicato.
Altra singolarità di questo artista che ha molto lavorato a Padova come “valente discepolo” di Gianni Bonazza, scultore di chiara fama all’epoca, poi a Torino presso i Savoia è la carenza di fonti biografiche quasi che sia stato oggetto di una damnatio memoriae. Se non ci si allontanasse dai fatti storici entrando nella dimensione romanzesca, si potrebbe anche supporre un qualche intervento di prelati delusi dalla mancata condanna del Nostro.
Se mancano notizie sulla sua vita nei registri di battesimi e matrimoni e negli elenchi dei Maestri della Fraglia dei tagliapietra e degli orefici e su dove si trovi la sua bottega, si sa da alcune testimonianze dei Committenti che Bertos abita stabilmente a Padova dal secondo decennio del ‘700 sino al 1739. Tra le varie testimonianze compare nei registri di spesa dei nobili veneziani Manin (aristocratici di antico lignaggio e desiderosi di potere tanto da condizionare i gusti del collezionismo dell’epoca verso il moderno) anche per incarichi di diverso genere. Riceve l’ultimo pagamento noto a Torino nel 1739, poi più nulla. Il gran numero di sue opere (definite dai contemporanei “Trionfi” usati come ornamento o meglio “Centro-tavola” su consolle o piedistalli o tavole per sorprendere e intrattenere i commensali) mette in luce una cultura e una capacità tecnica ineguagliabili che incantano ancora oggi per la perfezione raggiunta.
Bertos si sarebbe formato prima a Ravenna con il carrarese Giovanni Toschini, poi a Firenze con Giovanni Battista Foggini e nell’erudita Padova con il veneziano Giovanni Bonazza (che lo introduce nel colto ambiente veneziano) e forse a Roma: un percorso artistico che gli permette di arricchire il proprio linguaggio con spunti tratti da parecchie regioni italiane e da scultori come il fiammingo Giambologna (pseudonimo di Jean de Boulogne) e di imparare a lavorare anche il bronzo oltre al marmo in modo da soddisfare collezionisti sempre più esigenti.
Non a caso la prima sezione della mostra è dedicata a La Committenza: attraverso dipinti conosciamo alcuni dei più illustri ammiratori del Nostro e scopriamo che il suo più antico gruppo (1715) è riferibile ai già citati Manin, che nel 1722 lo zar Pietro il Grande – di grande efficacia il Ritratto di Pietro il Grande (della Bottega di Jean Marc Nattier) che esprime uno sguardo perspicace pur nella fierezza dell’armatura – ammirandolo acquisisce sue opere tramite Savva Raguzinskij (suo agente nella Serenissima) e che i Pisani di Santo Stefano (a cui appartiene il doge Alvise raffigurato nella sua compita maestà da Pietro Uberti) ornano entro il 1728 la biblioteca del loro Palazzo di suoi gruppi marmorei per non parlare del menzionato maresciallo Schulenburg che, oltre ad acquistare suoi lavori per la sua dimora sul Canal grande, lo mette in contatto con Carlo Emanuele III di Savoia per il quale Bertos opera a Torino tra il 1738 e il 1739.
Interessanti nella seconda sezione l’influenza esercitata sulla scultura di Bertos dalla Pittura dell’epoca con le sue ardite composizioni insieme aggraziate ed estrose e nella terza l’analisi delle sue Fonti di ispirazione che evidenziano come al di là della vocazione virtuosistica di Bertos, che non eccede e rimane sempre nell’alveo del buon gusto, siano evidenti i segni della statuaria antica e di artisti contemporanei di area veneziana come risulta nel suo splendido Fiume (Alfeo?), divinità fluviale a figura singola, barbuto, dal capo ricoperto di fiori e frutti presenti anche nella mano destra accostata a un’urna da cui esce un profluvio d’acqua “scolpita”. Per le opere in bronzo le Piramidi di putti del genovese Nicolò Roccatagliata hanno ispirato le sicuramente più affascinanti Allegorie delle stagioni di Bertos.
Nella quarta sezione con la creazione dei gruppi si evidenzia come Bertos abbia realizzato nella piccola statuaria veneta da galleria la Creazione di un genere nuovo e straordinario che superando i limiti propri del marmo e del bronzo eguaglia gli effetti della pittura contemporanea: pare quasi che gli strumenti usati con levità da Bertos siano pennelli! La quinta sezione evidenzia come La tecnica e la bottega formata da validi collaboratori, che in parte lo seguono a Torino, siano stati determinanti nella produzione di tanti capolavori affidati all’abilità di Bertos che realizza i suoi fantastici gruppi in un unico blocco di marmo: competenza raggiunta dopo ripetuti esercizi ed errori e lodata anche dal Canova. Lo stesso discorso vale per il bronzo con cui, assemblando elementi differenti, realizza gruppi complessi in un’unica colata di metallo con una lega fluida al punto giusto. Par di vederla questa affollata bottega ben organizzata con utensili anche minuti creati ad hoc, modelli in creta, disegni, miniature bronzee… e dai ritmi cadenzati.
Il percorso che permette di approfondire sempre più questo affascinante scultore passa ancora dalla sesta sezione che ne racconta La fortuna: le sue opere ritenute inattuali a causa del nuovo gusto classicista dalla fine degli anni ’30 del ‘700, come accennato, ritornano in voga da fine secolo a tutto l’Ottocento quando vengono realizzate in ceramica e porcellana da varie Manifatture di Nove (in provincia di Vicenza sul fiume Brenta), tra cui quella degli Antonibon, con soggetti che discendono da opere di Bertos come Giove fulmina i titani realizzato su disegno dell’operoso artista Domenico Bosello.
La settima sezione fa luce su L’iconografia de “La caduta degli angeli ribelli”, l’ardito suo capolavoro che compare in tutta la sua magnificenza e su cui ciascuno potrà soffermarsi per ammirare la perfezione di ciascuna della sessantina di figure finemente cesellate e quasi cinetiche tanto da parere animate per le diverse posizioni assunte intricando braccia, gambe e serpi durante la caduta. Ricavato da un solo blocco di marmo di Carrara, il gruppo ha come committente Marcantonio Trento, nobile padovano divenuto giovanissimo balì (capo supremo) dell’Ordine dei Cavalieri di Malta che per la funzione di difensore della cristianità contro i Turchi fa assumere all’opera di Bertos una pluralità di significati simbolici reconditi. Oltre a quello di Trento nuovo paladino della Cattolicità, si può anche leggere un invito a svolgere tale compito con umiltà e ponderatezza senza cadere nella superbia il cui simbolo è Lucifero. Come non pensare che l’altissimo personaggio non abbia discusso, se non indicato allo scultore proprio le opere (presenti in mostra) dalla cui tematica trarre ispirazione? Lucifero altri non è che l’altero angelo (il massimo Serafino, figlio dell’Aurora) ribelle saldo sulle sue gambe e armato di forcone mentre si oppone a Dio rappresentato dall’arcangelo Michele che librandosi in volo e brandendo la spada fiammeggiante respinge l’esercito del male così come raccontato nell’Apocalisse di Giovanni, tema presente anche nella letteratura da Dante a John Milton. Il gruppo quindi va guardato, ammirato e considerato come è successo nel passato oltreché per le sue peculiarità di eccellenza tecnica ed estetica anche per i numerosi significati ravvisabili allora come ora da chi lo contempla.
Per chi volesse approfondire molto utile il catalogo delle Edizioni Gallerie d’Italia|Skira.
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