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Il museo MAH presenta il quarto appuntamento di XL, mostre in cui gli artisti vengono chiamati a confrontarsi con le collezioni del museo, costruendo percorsi personali che vedono con occhi nuovi il materiale museale. L’occasione di vedere l’interpretazione dell’artista belga Wim Delvoye è particolarmente ghiotta, in quanto lui stesso è un accanito collezionista: qualcuno direbbe accumulatore, ma dissento fortemente da questa interpretazione, poiché nel modo di collezionare dell’artista tutto è ordinato in modo impeccabile.
La raccolta degli oggetti è legata insieme da un ferreo e lucido rigore e una capacità incredibile di creare inedite corrispondenze, potremmo dire costellazioni di oggetti. Il fatto che si vada con indifferenza apparente da un oggetto d’arte, ad una suppellettile preziosa, fino all’incredibile (quasi?) completa collezione ordinatamente disposta e incorniciata delle etichette del formaggio della Vache qui rit, nulla toglie al valore della collezione stessa. Sin dal Rinascimento, infatti, siamo abituati alle collezioni di “naturalia et mirabilia”, provenienti dalla natura oppure artefatti e prodotti umani dal carattere singolare e stupefacente, oppure ricordiamo i gabinetti di curiosità, le precedenti collezioni di anticaglie e via di seguito. Oggi, oltre al valore estetico dell’oggetto, si è aggiunto un valore antropologico, testimone del gusto della società in un determinato momento storico, basti pensare allo squisito Museo dell’Innocenza progettato da Orhan Pamuk a Istanbul.
La collezione dell’artista abolisce qualsiasi gerarchia e si presenta come un gioco serio attraverso cui costruire legami, del resto la radice stessa della parola collezione e raccolta è quella di legare insieme. Facciamo qualche esempio di collegamenti: nella prima sala dopo l’entrata, dedicata alla Venere Italica, il modello canoviano con cui l’opera di Delvoye si confronta, viene animato da delle biglie correnti lungo i solchi che costruiscono un percorso elicoidale per tutta la scultura, in bronzo bianco, che simula provocatoriamente il marmo dell’artista neoclassico. Le sale 3 e 4 sono percorse da un grandioso meccanismo cilindrico con dentro delle grandi biglie d’acciaio che con fragore corrono lungo i canali trasparenti che entrano in quadri (della collezione dell’artista), a volte all’al posto di un occhio di un ritratto o altrove, che provocano nello spettatore, o almeno in me che ho un rispetto reverenziale per le opere antiche, un moto di fastidio. Ma proseguiamo e guardiamoci ancora attorno, qui un quadro di Dadamaino con uno dei tipici vuoti tondeggianti, là un’opera di Damien Hirst (un phon con una pallina da ping pong sull’uscita d’aria dell’oggetto che la potrebbe fare volteggiare), in controcanto alcune stampe di Piranesi dalle ariose e gigantesche volte romantiche, fino ai fori quasi circolari applicati nell’architettura di Gordon Matta Clark per costruire inedite, deliranti prospettive nell’edificio. Fa da cerniera di questi spazi e di queste opere un’intervista alla televisione svizzera di Lucio Fontana: il primo che con i suoi tracciati luminosi ha riconfigurato lo spazio, lo ha fatto pulsare, ha introdotto nello spazio la temporalità della fruizione dello spettatore. Allora alla prima sensazione di fastidio per la provocazione dell’artista si sostituisce la riflessione su uno spazio animato, dove i valori sono stati scomposti e ricomposti, dove le relazioni sono diventate meravigliose e il vuoto diventa un gioco fisico di forze, in cui l’invisibile acquisisce visibilità.
Tutto viene concepito in maniera oculata in un gioco di rimandi con la storia, la collezione, la storia dell’arte e così via: la sala 5 presenta una scultura con una doppia torsione formata dalle figure del Cristo crocefisso che diventano un nastro di Moebius: la torsione, figura manierista del dinamismo, evoca le complesse leggi della fisica mentre la lucentezza del materiale della scultura trova corrispondenza nelle antiche vetrate delle mura. Nell’altra sala angolare, la 12, il moto si fa invece ascensionale nell’architettura che riprende, in acciaio inossidabile tagliato al laser, la torre di Bruxelles. In queste due sale quindi si parla ancora di moto, di forze, di dinamismo delle forme.
Nella sala 14 la duchampiana versione portatile della celebre macchina Cloaca introduce al famoso Der Lauf der Dinge (1987) di Fischli e Weiss: il video di una serie di eventi prodotti in maniera inevitabile e tragicamente buffa attraverso degli oggetti quotidiani. E ancora un pezzo di cloaca nell’ultima sala trova degli opportuni pendant in una macchina celibe di Jean Tinguely e nei grandi meccanismi di orologi settecenteschi del museo. I rimandi sono coltissimi e imprevedibili, sottintendono temi comuni e significati che collegano l’arte con lo scibile della conoscenza e produzione umana.